Cuore e cervello, due organi strettamente connessi e interdipendenti
Cuore cervello sono due organi strettamente interdipendenti e il benessere dell’uno dipende inevitabilmente dal benessere dell’altro.
Entrambi si mettono all’opera in maniera sinergica in tutte le situazioni di stress, nelle quali il cervello manda gli impulsi per il rilascio di determinati tipi di ormoni, che a loro volta determinano un aumento della frequenza cardiaca quando c’è bisogno di mandare una maggior quantità di sangue agli organi e ai tessuti impegnati in situazione di tensione, di paura o altro.
C’è uno stress positivo, quello che si mette in moto nelle situazioni in cui l’organismo si deve difendere e c’è uno stress negativo che quello che l’uomo moderno vive quotidianamente, preso come in un’attività di corsa frenetica, che in ultima analisi è afinalistica. Cuore e cervello lavorano insieme quando c’è da stabilire l’empatia fra due o più persone. Sul piano strettamente medico, l’empatia non è un semplice sentimento di solidarietà, può essere assimilata a un bisturi col quale si taglia la corazza di diffidenza e di paura del paziente per arrivare al cuore in senso più estensivo.
Cuore e cervello si mettono insieme anche quando c’è da affrontare una problematica o una patologia. Capire che tipo di malato ha una determinata patologia piuttosto che che tipo di patologia ha colpito un determinato malato non è la stessa cosa. Per gli antichi greci, che pure ci hanno insegnato a vivere e a capire la vita attraverso la loro filosofia, i sentimenti erano un qualcosa di esterno all’uomo, un qualcosa che veniva trasportato dal vento e che colpiva le persone.
Era così per la rabbia, la paura, la tristezza eccetera. Per lungo tempo, specie nell’arte medica, si è andati avanti procedendo a compartimenti stagni, considerando i vari organi ed apparati come entità indipendenti. Questo tipo di approccio ha portato a considerare la malattia e non il malato.
La moderna medicina tende a considerare il malato nella sua complessità, in una dimensione olistica, che tenga conto del malato prima ancora della malattia e che vede la malattia stessa e la sua cura inserita nell’ambito di una cura globale della persona e non del singolo organo.
E’ per questo che il cervello, con esso i sentimenti, le paure e i dubbi del paziente fanno parte integrante della sua malattia in un rapporto costante di interdipendenza tra mente e cuore. Trattare il malato e non la malattia ci permette di procedere con un atteggiamento empatico, che è alla base di qualsiasi successo terapeutico.
Senza empatia nessuna terapia può riuscire. In quest’ottica, recuperare il rapporto medico paziente, mettendo quest’ultimo al centro di un processo decisionale che non lo veda come destinatario univoco di informazione ma come elemento essenziale di un dialogo, che ha per scopo in definitiva il miglioramento delle sue condizioni di vita, è il primo passo verso il recupero di una dimensione olistica.
Certamente, lo stato di estrema difficoltà in cui versa il servizio sanitario nazionale, la carenza di personale, specie nei luoghi dove maggiormente servirebbe, penso ai pronto soccorso, fa sì che l’aspetto empatico venga spesso sacrificato e schiacciato sotto il peso enorme della fatica e sotto la pressione anche fisica di chi cerca risposte e non le trova.
Massimo Conocchia