Gli alberi pizzuti segno di mestizia e di lutto
Spesse volte ci poniamo delle domande su usi e costumi, che si tramandano da secoli immemorabili.
Spesso non si riesce a dare o trovare risposta adeguata e si ascoltano farneticazioni d’ordine vario.
I tuttologi le sparano grosse, sciorinando tutta la loro “scienza”.
Non pochi si saranno chiesti: – Come mai i cipressi, in Toscana, sono piante ornamentali, che impreziosiscono il paesaggio e da noi sono associati alla morte? -.
Noi che tuttologi non siamo, ma ci piace rovistare tra vecchi giornali e testi di autori d’altri tempi, proviamo a dire la nostra.
Gli àrburi pizzuti, come si dicono i cipressi, si vedono nei cimiteri e non si piantano mai vicino alle abitazioni.
Da quando in Acri fu costruito il cimitero – siamo a fine 800 – le nostre donne presero ad augurare la morte alle antagoniste, nelle liti di rione, con imprecazioni quali: – Vu’ jir’ all’arburi pizzuti!, – Ti vuonu portari all’àrburi pizzuti! (Che tu possa finire agli alberi appuntiti!; Ti possano trasportare agli alberi pizzuti!).
Presso gli antichi si citava il cipresso di Plutone, che è il cupressus sempervirens, così catalogato da Linneo. La pianta svettante con tronco diritto e forma piramidale era, nell’antichità, sacra a Plutone, divinità infernale, cosa che la dice lunga.
Per tutto questo gli antichi ritenevano la pianta simbolo di lutto e di mestizia. Oltre a ciò, in quei tempi, il cipresso si usava nei riti funebri e il suo legno serviva per allestire le pire, su cui bruciare i cadaveri. Questo, perché l’odore del legno, va detto, essendo quella una pianta aromatica, copriva l’odore del cadavere bruciato.
I nostri antenati chiamavano, forse in ricordo di quanto riportato, ‘ncìenzu (incenso) il cipresso?
Gli antichi, ancora, ornavano con rami di cipresso i monumenti funebri e di essi s’incoronavano, nelle cerimonie i sacerdoti di Plutone che, ricordiamo, era dio degli inferi. Il feretro era condotto nei boschetti di Cibele, adorno di rami di cipresso.
Orazio perciò canta nei Carmina (l. II, Ode 14) come si riporta nella traduzione: “e degli alberi, che ora tu coltivi, nessuno, solo il cipresso odioso, seguirà te, padrone dalla breve vita”.
Non possiamo dimenticare che gli antichi, per meglio tramandare il loro sapere, spesso lo condensavano negli affascinanti miti, resi tali, per essere meglio tramandati a memoria d’uomo. Riguardo ai cipressi, perciò, dicono che erano figlie di Eteocle, che ardirono di gareggiare con le dee, nella danza e, pertanto, furono, da loro, affogate in una palude.
Gea, la madre terra, ebbe pietà di loro e le trasformò in alberi snelli come erano le ballerine, che avevano azzardato quella sfida.
Fu così che i nostri antenati, quando presero a inumare i cadaveri nei cimiteri, ricordarono, inconsciamente, quanto tramandavano Greci e Latini, sul culto dei morti, e piantarono i cipressi in quei luoghi di mestizia e di lutto.
Giuseppe Abbruzzo