Una vecchia credenza sui morti
Il due novembre, giorno dei morti, come lo dice il popolo, si ripete un rito: la visita al cimitero. Il celebre Totò, perciò, sottolineava: “ognuno l’ha da fa chesta crianza, / ognuno ha da tenè chistu penziero!”
Fino a non molti anni addietro, chi seguiva questa tradizione, questo dovere, come si dice da tanti, assisteva a scene d’isterismo nel nostro cimitero.
Spesso, faceva rilevare qualcuno, era tutto una “sceneggiata”: donne che avevano avuto dissenso con quel familiare, ora si recavano sulla sua tomba, strappandosi i capelli e le vesti, piangendo “ad avutu bannu”, ossia con grida altissime. Tanto era usuale.
Tutto questo fa contrasto con le visite composte e compunte dei nostri tempi.
Desta, ancora, meraviglia la credenza dei nostri antenati, sul rito messo in atto per onorare chi lasciava i viventi.
Un saggio, a riguardo, ce lo dà un dimenticato, ottimo letterato acritano: Nicola Romano, che lasciò numerose, interessanti opere date alle stampe. Fra queste c’è un poemetto, del quale si è data notizia altra volta: Berardi o il re dei boschi.
Questo poemetto, evidentemente ritenuto ancora interessante ai nostri tempi, è stato ridato alle stampe dalla Rubettino qualche anno fa.
Torniamo al nostro assunto e cediamo al Romano, che così annota nel citato scritto.
Precisa che su quanti finivano di vivere in forma violenta “nacquero diverse favolette, e strani racconti, creati dalla facile immaginazione del popolano: che i demoni strepono e ballano intorno al corpo dell’ucciso”.
Fra le credenze sui defunti riporta la seguente altra credenza: si riteneva “che i morti amici e parenti visitano nella notte suprema il moribondo, e vi tornano a casa la notte che segue, ove la pietà dei superstiti appresta loro di che rifocellare le esauste forze”.
A sfatare tale credenza don Nicola, era un prete, ci informa: “Narro un fatto che accadde anni fa nel mio paese (ndr si ricorda che il paese è Acri), e proprio vicino alla mia casa”.
La casa dove era nato e abitava Nicola Romano, era nel rione Casalicchio, nelle immediate vicinanze della chiesa di S. Nicola di Belvedere.
“Era morta – prosegue nella narrazione – una povera donna, e i parenti memori di questo ufficio pietoso misero sur un deschetto del cibo, e alla tarda ora lasciato il morto nella sua pace in compagnia d’un lumicino, passarono nella prossima casetta d’un amico, acciò la taciturna compagnia degli ospiti trasmondani avesse potuto con maggior comodo cibarsi”.
Lasciata la casa dei vicini, i “dolenti”, come si denominavano i parenti della morta: “A giorno tornano a casa, e trovano la tavola sparecchiata”.
A questo punto il narratore introduce la considerazione dettata dall’animo puro di una innocente: “- Che ladri morti! -, disse una ragazzina su i dodici anni; e non bastava tutto quel pane? anche le forchette anno portato via? -“.
Nella innocente considerazione vi è il nuovo che avanzava: a far razzia di tutto non potevano essere stati dei morti normali, ma erano stati “morti ladri”, ossia ladri, che si fingevano morti.
Ed ecco la considerazione di Nicola Romano, che spiega l’arcano: “Altro che morti! Una vecchiarda di mala vita avea adocchiata la bella e sicura preda; e in sulla mezzanotte, nell’ ora proprio che i morti si mettono in via, entrò cheton chetone lì dentro, e divorata una grossa scodella di tagliolini, fatto fagotto del resto andò a rincantucciarsi nella sua stamberga, e dormire sonni beati per l’anima della vicina che più non era. Eppur noi perdoniamo al volgo ignorante queste puerilità da bambini, riflettendo che Hobbes, materialista, avea paura la notte degli spiriti e Voltaire tremava nelle tenebre come un fanciullo. -Tanto una falsa educazione alimentata di pregiudizii e superstizioni, influisce gagliardemente sul resto della vita!”.
È vero che a tanti non piace leggere, ma per conoscere da dove veniamo bisognerebbe farlo, se no…
Giuseppe Abbruzzo