Così ne scrisse Padula
Padula nei manoscritti, fa una precisazione assai importante:
“Nella mia Calabria poi la perspicacia degli Archeologi, e tali colà sono tutti gli Arcipreti, andò più oltre”. Ovviamente andò oltre rispetto a quanto avveniva in altre parti d’Italia.
Chi avrà la bontà di leggere se ne renderà conto.
Detto questo incominciamo con la presentazione di quanto lo studioso scrisse su alcuni paesi.
“Di Bonifati meschino paesello se tu chiedi agli abitanti onde fosse il nome proceduto, ti si risponde così: – Questa città nostra è antica quanto il mondo; ma in remotissimi tempi avendola il tremuoto atterrata, gli avi nostri presero a riedificarla; e trovandosi, mentre erano al lavoro, a passare alquanti nobilissimi Romani,
– Buon dì, buona gente, dissero loro, che fate voi qui? –
– Ci rifabbrichiamo, risposero gli avi nostri, il paese.
– Bene fate, soggiunsero i nobili Romani, Bene fate, e proseguirono il cammino. E così fu che volendosi serbare memoria del buono augurio uscito di bocca a quei Romani, il paese nostro s’appellò Bonifati”.
È una storiella inventata dal Padula? Circolava davvero quanto riportato fra gli abitanti di Bonifati?
Fate voi. Sarebbe interessante sapere se altri, che scrissero di questo paese l’hanno riportata come storia vera o come riportata da altri autori.
Ma, procediamo e cediamo la penna al suddetto autore: “Altro meno ignobile villaggio è Cerasano; e dei nostri dotti chi traendone il nome dalle ciriegge almanaccò che ivi pria che altrove fosse piantato l’albero di quelle frutta portato per Lucullo dal Ponto; e chi, altrimenti pensandola, raccontò così la faccenda: – Lungo le rive del Crati, malefiche e lorde per acque stagnanti, quando era il caso che di està i contadini infermassero, solevano pallidi e cotti dalle febbri condursi in questo luogo qui, non da edificii allora, ma da poche capanne occupato. E poiché, grazie alla buona complessione dell’aria non più che pochi dì voleano gl’infermi per restituirsi in salute, avveniva che tornando agl’ intermessi lavori dei campi con visi rifatti e lieti, udivano dirsi dai compagni: – Oh che cera sana avete riportato! – E così fu che questo luogo dove le cere si rifaceano sane, si addimandò Cerasano”.
Non sappiamo se le cose andarono proprio così. Di certo, sappiamo che quanti lavoravano nelle terre prossime al Crati, per le paludi che vi erano, contraevano la malaria. Le febbri periodiche portavano a morte non pochi di loro, colpiti dalla terzana. Altri erano tormentati da le quartane e potevano curarsi con rimedi empirici. Che a Cerisano vi fosse aria buona sarà vero, ma che tutti, proprio tutti riacquistassero “la buona cera” è generalizzazione poco accettabile. La storiella, perciò, potrebbe essere solo vera in parte.
Ecco un terzo paese, così come ci viene presentato:
“Più piacevole racconto si fa di Saracena, vallata nel circondario di Castrovillari. – La patria nostra, dicono gli abitanti, ricorda Noè ed Abramo. Fondolla fiera e valorosa Amazone chiamata Sara, che, vinti i popoli vicini dava tanto terrore di sé, che si venne nella deliberazione di ucciderla. I congiurati dunque s’introducono sul tardi nel paese, si fanno alla reggia, e chiedono alle guardie: – Possiamo entrare?- – Sara che fa? – Sara Cena, risposero le guardie, e diedero il passo. Così la regina fu tolta di vita stando a desco e cenando; e per serbare memoria di sua morte avvenuta dopo le parole Sara cena profferite dalle guardie, fu che il nostro paese di chiamò Saracena.
E se chiedi loro che pruova s’abbiano di ciò che raccontano, ti conducono issofatto in una loro chiesa, e soggiungono: – Vedete lì su quel cornicione? È il monumento del fatto lasciatoci per gli avi da tempi immemorabili.
E veramente il cornicione ha una vecchia pittura, dove una donna ignuda in atto di ravvolgersi in un zendado ti viene all’occhio; e quella è Sara”.
Storielle curiose e belle, anche se non vere. Anche questo, però, va raccolto e tramandato, perché se non ha altro pregio ha quello di dimostrare un’inventiva particolare dei nostri antenati.
Giuseppe Abbruzzo