Unità d’Italia
Entra in ambulatorio con il piglio di chi vuole avere una risposta sola ma in tutta fretta e non è della diagnosi, che già sa, lui è del tempo che chiede “dottore, io questo intervento lo voglio fare con la sanità pubblica!”
Io sto aspettando che il computer si carichi, la prendo alla larga “c’è una lista d’attesa” ed è questo il tasto che non dovevo suonare perché lui è già carico “sono quattro anni che aspetto tra covid e post, mi dovevano chiamare entro 6 mesi”.
Il computer si è acceso e, adesso, anche la mia curiosità “sono davvero quattro che anni che aspetta?”
Mi racconta la sua storia, nativo di Reggio Calabria, emigrato, lavorava e viveva a Torino, si è trasferito a La Spezia da pensionato per amore di nipote, insomma, lui, l’Italia l’ha unita davvero tutta, da sud a nord.
Era stato visitato alle Molinette, il più grande ospedale del Piemonte , “la chiameremo”. Era il 2020, poi il Covid, il telefono non squilla più, lui non ci pensa più, “meglio così” mi confessa “ho sperato che il mio turno fosse subito dopo la fine della pandemia, non sarei mai andato in Ospedale, avevo paura”, non l’hanno mai più chiamato.
È la storia di tanti, troppi, migliaia di interventi rimandati e mai più eseguiti, prenotazioni perse, pazienti persi, pazienza persa con la promessa di recuperare nel tempo, sempre e ancora tempo perso.
Io allargo le braccia, non so proprio come dirgli che, adesso, c’è da ripartire un’altra volta dal via e, poi, soprattutto, come licenziarlo con l’antica formula magica a lui già nota e triste “la chiameremo”. Lui, però, mi precede, quasi ad intuire e scongiurare il finale, e si gioca il jolly o, almeno, così gli hanno imprudentemente suggerito di vincere la partita.
“Dottore, avevo prenotato la visita chirurgica e il primo appuntamento era per maggio 2025, mi hanno detto che se fossi venuto privatamente, forse, avrei avuto una via preferenziale per l’intervento e guadagnato tempo, è così?”
Io vorrei spegnere il pc, il sorriso aziendale e il protocollo condiviso, accedere la ragione e la rabbia, togliermi il camice, sedermi accanto a lui e dirgli quello che penso, che la sanità pubblica non esiste più, da nord a sud, isole comprese, che i tempi di attesa per una visita e per un intervento chirurgico sono a “babbo morto”, che c’è rimasto tempo e risorse solo per chi ha un tumore o per le emergenze e che per tutto il resto, e anche per lui, c’è soltanto la pazienza dell’attesa ma io sono un dirigente della moderna ASL, sono anche onesto e, prima o poi, diventerò anche io nonno e, chissà, ritrovarmi dall’altra parte della scrivania a chiedere il tempo del mio dolore.
“No, le hanno spiegato male, io devo metterla in lista d’attesa e lei aspetterà come gli altri e io non so dirle quanti mesi, ci sono i codici da rispettare e lei ha una patologia non urgente”.
L’invenzione dei codici è una regola che ho ancora da capirne il principio, è il concetto aziendale di “urgenza” che sfugge alla mia critica clinica ma fugge velocissimo ai piani alti dalla ragione commerciale dove è la matematica dei conti a comandare, l’ ottimizzazione delle risorse.
C’è solo da dire sottovoce “non capisco ma mi adeguo” perché se hai un tumore hai la precedenza, codice A, ovvio, ma se poi ha il culo che ti urla dal dolore per una ragade o se hai un lipoma che ti fa male, allora, sei declassato a serie cadetta o interregionale, non sei urgente e, adesso, a me tocca dirgli che lui gioca in serie C, è figlio di un dolore minore ma non è finita qui.
“Deve fare un’ecografia, ne ho bisogno per capire di più, quella che ha fatto è di quattro anni fa e nel frattempo la massa è cresciuta.”
Lui mi guarda non aria sconsolata e “ma adesso per prenotarla dovrò ancora aspettare chissà quanto, facevo prima a fare tutto nel privato ma io, dottore, lo voglio fare con la sanità pubblica, io pago le tasse, sono un pensionato Fiat, mi sono sacrificato una vita intera, io non me lo posso permettere”.
La mia vecchia prof.ssa di filosofia, la Julia, quando voleva spiegare di un costume diffuso in Italia, brutto o bello che fosse, usava dire “da Saluzzo a Milazzo”, lui viene da Torino e non ho poi fatto così tanto strada per arrivare a La Spezia ma se anche fosse sbarcato più giù, sulle orme di Garibaldi, alla sua domanda, la risposta sarebbe stata sempre la stessa:
“la chiameremo, nè.” oppure “la chiameremo, ostrega” o “la chiameremo, mìzzeca” o “la chiameremo, boia dè” o ancora “la chiameremo, baciamo le mani” perché l’Italia oggi ritrova la sua unità nel degrado della sanità pubblica.
Esce dalla mia stanza con la consapevolezza, per fortuna silenziata dall’ educazione, che ha fatto una visita inutile, che ha speso soldi inutilmente, che è inutile chiedere perché a lui, a me ed altri molti di più che “mille” è concesso solo dire “obbedisco” ma questa, però, è un’altra storia d’unità d’Italia, utile solo alla vergogna della ragione perduta.
Angelo Bianco