Il pentagramma di ricordi

A me piace strimpellare il pianoforte, uso una sola mano, da principiante puro, ma ho orecchio e la musica che ascolto, alla fine, la suono uguale all’originale, tra tasti bianchi e tasti neri, tra più o tra meno.

Ho anche messo su insieme una melodia con i tre accordi che conosco, usando la mano di riserva.

A Pia piace, come alle bimbe e anche secondo me è bellissima, è diventata il tormentone musicale ufficiale di casa.

Prima di proporla a Gabbani, che na avrebbe fatto una hit della prossima estate, l’ho fatta sentire a Simone, un mio amico chirurgo vascolare.

Lui è uno che sa rifar scorrere il sangue ma, con la stessa maestria, le mani le usa anche per far scorrere le note sui tasti. Sono stato categorico “dimmi cosa ne pensi, senza sconti” e lui non m’ha tolto manco un centesimo “è una cagata, sono solo tre accordi in croce” e, così, fine di una carriera in erba, la musica non fa per me.

Elisa ha scelto le scuole medie ad indirizzo musicale e, prima o poi, doveva succedere “Papà mi devi interrogare in musica” e io “Eli ma io di musica non ne capisco davvero nulla”, Simone docet, “cosa dovrei fare?”

Mi fa vedere un pentagramma e fin lì ci arrivo “chiedimi quanto durano le note.”

Io guardo le righe, poi lei, poi i cerchi sulle righe e, allora, lei si fa pietà della mia ignoranza e mi indica con il dito, una per una “papà, questa è una semibreve, questa è una croma, questa è una semicroma, questa è una biscroma e tu mi devi chiedere quanto durano” e io le prendo le mani “basta Eli, basta…” e lei “cosa c’è papà, perché, non è difficile!”

Mio nonno paterno, nonno Francesco, era capotreno per dovere ma capobanda per piacere. Dopo la morte di mia nonna Maria, si era sposato una seconda volta, totalizzando 12 figli, 9+3. Lo strumento che suonava era il trombone e non poteva essere un caso, cioè, è che lui era un ormone grosso, cioè, volevo dire omone grosso, insomma, vabbè, aveva tanto fiato.

Abitava a Bianchi, ad uno sputo da Colosimi, che era invece patria dei nonni materni, papà ha fatto poca strada per trovare mia mamma, anche se di saliva ne ha dovuta ingoiare parecchia, mia mamma era davvero bella. La casa del nonno era un po’ dopo l’inizio di un vicolo tutto in salita e, poco prima della porta d’ingresso, c’era una finestrella che dava sul cucinotto. Noi arrivavamo sempre all’orario di pranzo e lui ci aspettava seduto a capotavola, davanti a quella finestrella e a tutti noi nipoti piaceva salutarlo subito da lì, anche, forse, solo per riposarci dallo sforzo. Lui, appena ci vedeva, iniziava con le domande di sempre, tutte le volte “Angelì, quanto dura una semicroma? Francè, è una biscroma, Lorè, una semibreve?” e, poi, quando entravamo dalla porta, intonava, sempre, “avanti popolo…” non era per ragioni politiche, è che la sua famiglia era un popolo, a lui piaceva la compagnia numerosa. Quella casetta c’è ancora, c’abita zio Ferruccio, l’ultimo dei suoi figli.

“Papa, perché hai gli occhi lucidi?”

Non ho molti altri ricordi di nonno Francesco, non andavamo così spesso a Bianchi ed era sempre toccata, pranzo e fuga, avevamo fretta di tornare a Colosimi, lì c’era la movida estiva. C’è la sua giacca scura sempre con sotto il panciotto, i baffi e il suo salutare con la mano chiunque incontrasse per strada o quando era in macchina con “caro, caro”, il suo inno. Ma è la sua semicroma e la sua biscroma che mi riporteranno sempre indietro nei suoi ricordi e, oggi, su quel pentagramma ne ho riascoltato le note ed è stato luccicante.

“Niente Eli, niente. Ti ho mai raccontato del tuo bisnonno Francesco, lui si che ti avrebbe saputo rispondere, lui era anche un musicista” e lei “suonava anche lui il pianoforte?” sorrido “no, lui il trombone ma questa te la racconto tra qualche anno” lei arriccia il naso, fa così quando non capisce “insomma papà, non lo sai quanto dura una biscroma?” io la guardo, non arriccio il cuore “no Eli, non lo so, però so dirti quanto dura un ricordo”.

Angelo Bianco

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