“Gli emigrati acresi nelle Americhe e la Grande Guerra”: un libro da leggere e custodire
Abbiamo di recente avuto occasione di leggere l’ultimo lavoro del
Prof. Giuseppe Scaramuzzo, al quale ci lega un rapporto profondo ed
antico. Nostro professore di Storia e Filosofia al Liceo, gli
riconosciamo un impegno non comune nella missione educativa, intesa
prioritariamente come formazione e sviluppo critico della personalità.
Lo ricordiamo nei lunghi pomeriggi nei quali si offriva
disinteressatamente di farci ritornare a scuola per approfondimenti,
iniziative culturali, cinefoum, etc. Aveva anche provato ad attuare
con noi il motto “mens sana in corpore sano”, invitandoci agli
allenamenti al campo sportivo al mattino presto, ma abbiamo quasi
subito gettato la spugna, preferendo, in forza della nostra scarsa
attitudine verso il gioco del calcio, la corsa e l’attività fisica
aerobica quotidiana. Tutto questo per dire di un legame basato su
stima e rispetto per un ruolo che ha svolto egregiamente. Da studente
a Siena, osservavamo nostri compagni di stanza che usavano quei libri
che noi avevamo letto e metabolizzato al Liceo, da Hobsbawn, Federico
Chabot, Luigi Salvatorelli, Jaques Le Goff etc. Ritrovarsi tra le mani
il suo ultimo lavoro è stata, pertanto, un’occasione per apprendere
notizie storiche di prima mano sull’emigrazione acrese. Il libro – 432
pp ed. L’ecojoinio 2018 – è corredato da un’interessante prefazione
del Prof. Guido D’Agostino, Ordinario di Storia moderna presso
l’Università Federico II di Napoli e presidente dell’Istituto campano
per la Storia della Resistenza.
Il volume si sviluppa su un’architrave – che rende in parte ragione
delle idee e delle battaglie dell’Autore – che è quello di dimostrare
come, in ogni epoca, le classi subalterne sono state sfruttate e
derubate da “galantuomini” senza scrupoli. I lavori precedenti, da
“Storia di gente comune” a “Nascita di un Comune democratico”, etc, ci
restituiscono una coerenza storica e ideologica di un uomo abituato
alla lotta e a stare dalla parte dei più deboli.
Il rigore dello studioso si rileva già dall’inizio e si sviluppa lungo
tutto il percorso. Mirabile è l’analisi dello stato sociale di Acri –
e in generale della Calabria – dopo l’Unità, con la messa in evidenza
delle speranze tradite e di come le condizioni del popolo siano
miseramente peggiorate. Tra le cause principali le usurpazioni dei
terreni demaniali ad opera di signorotti che hanno fatto man bassa dei
demani migliori – dei quali, per assurdo, il Comune continuava a
pagare le tasse – lasciando ai contadini terreni boschivi di poca
utilità.
Tutto questo, unito ad altre cause, la tassa sul macinato, il
servizio di leva portato a sette anni, non poteva che tradursi in un
allargamento del disagio sociale e della miseria, in ragione della
quale l’emigrazione, fenomeno scarsamente rappresentato prima
dell’Unità, diviene un fenomeno molto diffuso dopo. Al di là di
qualche incerto tentativo dei governi postunitari di ostacolare
l’emigrazione, quest’ultima, verso la fine de secolo, venne quasi
auspicata.
La nuova monarchia vedeva di buon occhio la partenza dei
meridionali verso le Americhe, non solo “’a Merica ranna” ma anche gli
Stati Uniti, dove, in seguito alla Guerra di Secessione e l’abolizione
della schiavitù, gli Stati del Sud avevano bisogno di nuovi schiavi,
che venivano inviati altre oceano con la promessa di un futuro
migliore che nella maggior parte dei casi non si sarebbe avverato. Il
Positivismo e la “nuova scienza” contribuivano, poi, a dare del
meridionale l’immagine del perfetto delinquente, geneticamente portato
al delitto e al malaffare, per cui tanto meglio se emigrava.
L’analisi
di Scaramuzzo è impietosa, non risparmiando critiche al neo Senatore
del Regno e Sindaco di Acri, Vincenzo Sprovieri, del quale fa emergere
le connivenze con un manipolo di protetti e clientes e chi si trovava
al di fuori di questa cerchia era spacciato. Mirabile è l’analisi
dello stato sociale ad Acri e dell’emigrazione attraverso i periodici
dell’epoca, dallo “Scudiscio”, alla “Riscossa”, la cui anima era
Filippo Giuseppe Capalbo, nonno materno di Giuseppe Abbruzzo, al quale
dobbiamo, insieme Scaramuzzo, buona parte della nostra formazione. Il
Moccone che, nell’unico anno di vita, ha permesso al suo fondatore, il
medico Michele Capalbo, di denunciare degrado e Malaffare. Il Rabagas,
che da Napoli strigliava i nostri “galantuomini”. Il libro di
Scaramuzzo è interessantissimo per la mole di ricerca storica che
contiene, con notizie di prima mano e un’analisi storiografica e
sociologica che rende ragione di un quadro sociale quanto mai
instabile e precario dove, a fronte di pochissimi che ingrassavano,
registrava malessere e fame del popolo, che vedeva nell’emigrazione
l’unica vita per sfuggire a morte e malattie.
Contestualmente le realtà si impoverivano venendo private delle energie migliori. I pochi che riuscivano a fare fortuna rientravano nel luogo di origine portando danari e nuovi mestieri che finivano per dare una boccata d’ossigeno a un’economia asfittica.
Scaramuzzo si occupa anche di analizzare l’emigrazione rapportata alle due guerre mondiali, al
comportamento degli emigrati, dei pochi che hanno risposto alla
chiamata di leva, ai molti che hanno preferito restare in America e
che beneficeranno dell’amnistia successiva. Ma non finisce qui, perché
l’autore ci dice anche che fine hanno fatto questi soldati, i morti, i
feriti, etc. Analogo discorso per l’emigrazione durante il ventennio
fascista.
Il regime, fedele all’esaltazione fanatica del nazionalismo,
contrastava l’emigrazione pur non avendo fatto nulla per frenarla nel
concreto. Mirabile è la descrizione di una serie di componimenti,
alcuni anonimi, altri di grandi poeti dialettali – come Salvatore
Scervini – che ci restituiscono il dramma dell’emigrazione attraverso
versi struggenti.
Notevole anche l’impegno di Vincenzo Padula, che
invitava a contemplare non il Cristo di legno ma quello di carne, il
bracciante, delle cui misere condizioni traccerà un quadro
drammaticamente realistico. Notevole anche l’impegno di Vincenzo e
Antonio Julia nel denunciare degrado, miseria e malaffare.
L’emigrazione riprenderà dopo la seconda Guerra Mondiale perché la
neonata Repubblica non è riuscita a colmare il divario col Nord e fior
di economisti dell’epoca – pensiamo a Manlio Rossi Doria – pensavano
che la partenza di una parte della popolazione avrebbe contribuito a
rendere migliori le condizioni di vita di chi restava. Idea malsana,
tenuto conto che si privavano le realtà delle energie giovani e
fresche.
Emerge in ogni pagina non solo lo spirito rigoroso dello storico, per
come lo abbiamo conosciuto e per come lo ricordavamo, ma anche
l’intellettuale di Sinistra (quella vera) che analizza i fenomeni in
maniera critica e impietosa, senza sconti, tenendo sempre presente che
” la storia fin qui osservata è storia di lotte di classe”.
Grazie Prof. per questo ennesimo contributo alla verità storica e per
avere ridato voce e dignità a un popolo troppo spesso vilipeso.
Massimo Conocchia