‘A jinòstra

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La fibra dei poveri: la ginestra, nessuno ricorda come ottenerla.

In questi ultimi anni, però, si sono visti, in qualche mostra tessile, manufatti di ginestra.

Quello che mi ha colpito era il loro elevato costo, che cozzava con quanto avevo visto da ragazzo.

Un tempo come detto, il tessuto di ginestra, data la ruvidità e il basso costo, era usato dalle donne meno abbienti, per ricavarne sottane. Altri ne ricavava tela per sacchi; altri, ancora, ne ricavavano i “sacconi” del letto, per riempirli di brattee di granturco, comunemente detti “vutàni”.

Ora è scomparso il ricordo di questa fibra e si sconosce il lavorio, per ottenerla, messo in atto dalle nostre antenate, che non vivevano negli agi.

Vi è qualche interessato disposto a conoscere il lungo, paziente lavoro per ottenere il filato di ginestra? Probabilmente no. Si ritiene, però, utile fissarne il ricordo.

Nei mesi di febbraio-marzo quando la pianta emetteva i teneri rampolli (in dialetto jìetti), a volte si aspettava fino a giugno a farne il taglio.

 Si precisa che si raccoglievano i rampolli più giovani, perché erano i più indicati dall’esperienza, per ricavarne la stoppa da filare. 

Verso fine agosto, quando si erano espletati i lavori della mietitura e dello spannocchiamento del granturco si riunivano in piccoli manipoli i rametti suddetti e si lasciavano essiccare al sole.

Si riunivano, poi, approssimativamente, in fasci di 25 o 30 manipoli.

In autunno il tempo principiava ad essere umido. I ramicelli si battevano con una piccola mazza, per appiattirli e renderli flessibili, avendo l’accortezza di non romperli.

Generalmente, a fine settembre, dopo averli nuovamente ricomposti in fasci, s’immergevano in un corso d’acqua corrente.

A evitare di essere portati via dall’acqua, si lasciavano immersi, tenuti fermi con grosse pietre.

Dopo un determinato tempo i fasci si toglievano dall’acqua e si distendevano sul greto del torrente, in vicinanza del corso d’acqua.

Alcune donne coprivano prima il terreno con felci secche o con paglia.

Su quel terreno si disponevano i manipoli gli uni sugli altri, e infine alcune donne li ricoprivano con uno strato di paglia o di felci, per sottrarli all’azione dell’aria e del sole.

La cura, come dicevano doveva avvenire gradatamente e non di colpo.

Coperti, come detto, per mantenere nella giusta umidità i manipoli e lasciarli curare lentamente, vi si versava sopra una determinata quantità di acqua.

Dopo nove/dieci giorni, l’operazione terminava, e la corteccia si poteva staccare facilmente.

I manipoli si lavavano in acqua corrente. Si batteva la ginestra, con un apposito legno, per staccare la corteccia.

Si slegavano i fasci e si distendevano al sole, per farli essiccare.

L’azione del sole li gnanghiàva (l’imbiancava).

Si riformavano, dopo quest’operazione, i mannelli e si riponevano al coperto.

Al sopraggiungere dell’autunno inoltrato si gramolavano, ottenendo la stoppa.

La stoppa si pettinava, ossia si separava la fibra dalle parti dure, servendosi del cardo.

Era questo uno strumento a punte di ferro acuminate infisse in un apposito aggeggio di legno.

La stoppa così ripulita si filava in proprio o da donne anziane, che esercitavano il mestiere di filatrici.

L’ultima operazione era quella riserbata alle esperte maestre tessitrici.

Di tutto questo, ora, se ne è persa perfino la memoria, perciò si è pensato di salvarne il ricordo.

Giuseppe Abbruzzo

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