Difesa dei confini e diritti umani: il processo di Palermo servirà a fare chiarezza?

Al processo di Palermo, nel quale è imputato il ministro Salvini per la vicenda “Open Arms”, il PM ha chiesto la condanna a sei anni di reclusone per i fatti risalenti all’epoca in cui l’esponente leghista era ministro dell’Interno nel I governo Conte. La questione, come spesso succede in Italia, ha travalicato i confini dell’ambito prettamente giudiziario con una serie di esternazioni sia da parte di esponenti di primissimo piano della maggioranza che del diretto interessato.

Da parte del centro-destra, insomma, con toni e accenti diversi, si è pronti a gridare al complotto e alla solita “magistratura politicizzata” che cerca di affossare i governi per via giudiziaria. Si impone, qui giunti, un po’ di chiarezza: occorre, anzitutto precisare che, come previsto dal nostro ordinamento, dopo la riforma del 1989, prima di indagare e procedere nei confronti di un ministro, la magistratura ha l’obbligo di richiedere l’autorizzazione del Parlamento, autorizzazione che non solo è stata richiesta ma che è stata concessa a larga e qualificata maggioranza.

Dunque, dove sta l’irregolarità? Il reato ipotizzato per il ministro è sequestro di persona per avere impedito lo sbarco. La vera questione è se, di fronte a un’ipotesi di reato di un ministro, la magistratura debba arrestarsi o, come fisiologico in uno stato democratico e di diritto, debba invece procedere come si farebbe per un qualsiasi cittadino. Pretendere che la magistratura indietreggi e non processi i ministri sarebbe, a nostro modo di vedere, un pessimo segnale. Generalmente – come da più parti sottolineato – ci si difende nei processi e non dai processi.

Un monologo di 4 min in TV concesso a un ministro è anche quello un privilegio che contribuisce a demarcare un solco tra l’ordinario e ciò che, in vece, viene ritenuto straordinario. Riteniamo che il ministro Salvini abbia tutti gli strumenti per far valere le proprie ragioni e per una adeguata difesa ma nei luoghi opportuni, cioè nei tribunali. Ciò che il tribunale dovrà stabilire è se ci sia stata una minaccia ai nostri confini e se, da parte del ministro, sia stato violato il diritto impedendo lo sbarco e, soprattutto se quelle persone rappresentassero o meno una minaccia per il nostro Paese.

La nostra concezione della democrazia compendia, anche e soprattutto per chi gestisce il potere, la possibilità di essere giudicato serenamente da un tribunale, cosa, peraltro, fisiologica in tutte le democrazie del mondo, proprio a cominciare da quella spesso additata come esempio, ossia gli Stati Uniti, dove un ex presidente e attuale nuovo candidato è stato giudicato colpevole di 34 capi di imputazione senza che nessuno si sia scandalizzato per questo. Le due vicende, lo precisiamo, differiscono profondamente nel merito, attenendo quella americana a un vicenda diversa, personale che nulla ha a che fare con quella italiana ma l’esempio serve a far meglio capire come in altre realtà, ritenute esempio di democrazia, non si fanno sconti a nessuno. Il linguaggio usato da alcuni a proposito dei magistrati di Palermo, riteniamo sia un segnale pessimo di un inasprimento del confronto tra poteri e di una visione della giustizia che si vorrebbe asimmetrica e forse strabica.

Conclusa la stagione conflittuale dei primi anni ‘90 del secolo scorso, sarebbe stato auspicabile un clima diverso, mai realizzatosi perché se in una breve fase seguita a tangentopoli c’è stata oggettivamente da parte di alcuni magistrati forse un eccesso di protagonismo, da una parte politica c’è stata, in vari momenti, la tentazione mai sopita di ricondurre la magistratura sotto il controllo della politica.

Una contrapposizione che si è riverberata in differenti prese di posizione e verso la quale non possiamo che eccepirne la singolarità, trattandosi di due differenti forme di potere per loro natura autonome. Riteniamo, personalmente, giusto che un magistrato risponda, come tante altre figure professionali, di eventuali errori o eccessi, per lo meno sul piano civile. Parallelamente, riteniamo l’autonomia delle toghe rispetto alla politica un principio da salvaguardare e difendere, sempre e in ogni stagione.

Massimo Conocchia

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