Fine vita, un problema mai abbastanza dibattuto
Quello del fine vita rappresenta una tematica complessa, a tratti controversa per le inevitabili ricadute sul piano etico-religioso. Il nostro Paese, poi, in vari momenti della sua storia più o meno recente, ha risentito fortemente di una contrapposizione tra due visioni del mondo, quella cattolica da una parte e quella liberale dall’altra.
Pensiamo a quanto tematiche come il divorzio, l’aborto abbiano faticato a divenire una possibilità, per la presenza di una forte contrapposizione ideologica. Cosa non avvenuta in altri Paesi dove i temi appena esposti erano da decenni realtà quando da noi faticosamente concludevano il loro iter, prima parlamentare e poi referendario.
In buona sostanza, in Italia anche l’argomento di come lasciare questo mondo ha finito per essere intriso di una forte matrice religiosa che ne ha minato, per tempo, il percorso, costringendo chi era stanco di soffrire o di una vita semi-vegetativa a recarsi oltralpe per una fine dignitosa. Pensiamo al clamore che fece Piergiorgio Welby, quando, finalmente ottenne di staccare le macchine che lo tenevano in vita.
A lui venne negato il diritto ad un funerale religioso, concesso, poco tempo dopo, in quella stessa chiesa a un esponente di un clan mafioso della capitale. Molti ricorderanno il caso di Eluana Englaro, i cui cari ottennero, dopo lunga battaglia, il diritto alla sospensione della nutrizione parenterale. Dj Falbo e tanti altri sono stati costretti a porre fine ai loro giorni lontano dalle loro case e dai loro affetti e in mezzo a forti polemiche.
La moderna medicina consente oggi una vita media molto più lunga rispetto a qualche decennio fa; ciò determina, però, un inevitabile corollario di problematiche legate all’allungamento della vita, a patologie croniche che, in alcuni casi, non portano a morte ma rendono la prosecuzione della vita un vero calvario. Di fronte a questi aspetti, il legislatore ha il dovere di garantire a chi è stanco di soffrire la possibilità di scegliere una morte priva di dolore, senza attendere che la fine arrivi dopo estenuanti sofferenze.
L’Europa rappresenta un panorama composito da questo punto di vista, a fianco a Nazioni come quelle del Nord, la cui legislazione consente anche a chi è in perfetta forma fisica ma affetto, ad esempio, da forme gravi e non guaribili di depressione, di ottenere il suicidio assistito, ce ne sono altri meno permissivi. Di sicuro il nostro Paese è tra quelli che tardano ad affrontare in maniera definitiva l’argomento per le problematiche contingenti a cui prima accennavamo.
Occorre una riflessione pacata, equilibrata allorchè ci si trova a comprendere, a delimitare e accettare il momento in cui la vita finisce. E’ un parte dolorosa, terribile, con cui bisogna però fare i conti, garantendo a ciascuno la libertà di scegliere come lasciare questo mondo. Se si è liberi di vivere, si deve essere anche liberi di decidere quando e come morire, di fronte a situazioni che non garantiscono alcuna possibilità di cura. Se sul piano dell’accanimento terapeutico, ossia la rinuncia a proseguire trattamenti di fronte all’evidenza di una situazione irreversibile, molto si è fatto, sul piano dell’eutanasia, attiva (aiutare qualcuno a morire) o passiva (omissione di atti tali da prolungare la vita) c’è ancora tanta strada da fare. In tempi recenti, la Consulta ha allargato i confini del cosiddetto “suicidio assistito” che deve avvenire esclusivamente in determinate condizioni e nelle strutture pubbliche.
Si è trattato, comunque, di un significativo passo. Si tratta, lo comprendiamo, di tematiche complesse, dove il diritto all’autodeterminazione del paziente si scontra con l’etica, il diritto, la filosofia, la scienza. C’è, poi, un aspetto che tocca fortemente il medico, che in tematiche come queste si trova di fronte a una lotta tra la propria missione, che è quella di curare sempre e al meglio il malato, e la propria coscienza, che impone di prendere atto di situazioni irreversibili e di aiutare chi soffre a smettere di soffrire.
L’esperienza del Covid, le scene terribili a cui abbiamo assistito, la morte divenuta un elemento con cui quotidianamente fare in conti in maniera massiva, riteniamo abbia radicalmente cambiato anche l’atteggiamento del medico di fronte alla malattia e alla fine, rendendolo consapevole che la sua missione deve tradursi, sempre e comunque, in un atto d’amore, che trova esplicazione nelle forme più varie e che ha come fine ultimo la fine delle sofferenze.
Massimo Conocchia