La scala dei grigi

Bata - Via Roma - Acri

Questa mattina sul treno c’è un bambino che piange senza sosta e continua a ripetere “mamma, mamma, mamma”, lei non c’è.

C’è Il papà e ha provato tutte le carote, siamo tutti ad ascoltarlo e a guardarlo, qualcuno fa spallucce, qualcuno è infastidito, qualcuno non se ne accorge nemmeno.

Al diapason di un altro urlo, lui, esausto, rompe ogni indugio alla tolleranza e tira fuori i bastoni “adesso basta, se non la smetti ti lascio qui, non ti porto più a casa” e, poi, è tutto un altro corteo di rimproveri, tra lupi di colore vario e divieti, che, però, hanno un solo effetto, il bambino adesso è indemoniato.

È la stazione di Levanto, io scendo, lui invece continua il suo viaggio, a piangere, a cercare la mamma, io continuo il mio, in direzione Ospedale, oggi lavoro qui.

Tutte le volte, mentre scendo i gradini del sottopassaggio, mi chiedo di quali pazienti sarò a curare il disagio.

È un punto di primo intervento, non è mai nulla di grave, è una puntura di zecca, la tosse, un po’ di febbre, una distorsione banale, una ferita piccola, la diarrea, una crisi d’ansia, no, non è mai nulla di grave, anche se un mal di pancia può nascondere un infarto e, allora, c’è da prestare comunque attenzione ai sintomi, sempre, mai banalizzare un disagio.

Ho ancora in testa quello del bambino, il suo è invisibile alla ragione e alle mie mani ma lo è quasi sempre quando è l’anima a piangere e può succedere ad ogni età, quando sei tu, spesso, a diventare improvvisamente invisibile a tutti, anche a te stesso.

Succede quando hai una cima che non sai scalare, giri intorno, provi qualche metro, cerchi un sentiero più facile, ma poi ne rimani ai piedi, ritenterai domani, forse:

è la paura di non farcela.

Senti dirti “Non hai coraggio” oppure “è facile, devi solo provare”, sono gli stereotipi che abbondano nella bocca di chi non sente il cuore che batte all’impazzata, che non ha il freddo del sudore che riga l’anima, di chi non vede le mani che non hanno quiete, di chi non coglie il verso della parola strozzata, di chi non conosce quella paura.

Ti ritrovi da solo a dirti “diverso, impotente, inadeguato, colpevole” e nessuno aspetta più il tuo tempo, tutti hanno fretta di spingerti sopra quella cima, nessuno ha più pazienza del tuo dolore, tutti vogliono scendere dal tuo treno.

Quando è nata Elisa e poi Alli e la Dudi, ed Elisa&Co piangevano, ho comprato un libro, poi un altro, Pia di più, sei un papà, una mamma, non lo eri prima, era per capire chi dovessimo essere, cosa fare e chi erano loro e cosa non dovessero fare.

Le teorie pedagogiche moderne sono lontane anni luce da quello che diceva mia nonna, tra “se un bambino piange, esprime un bisogno e se non sai capirlo, se non sai soddisfarlo, si sentirà insicuro” e lei e, quindi, anche mia madre che “il pianto sviluppa i polmoni, prima o poi smettono.”

Sono solo gli estremi di una ragione, troppo o troppo poco, che saranno poi sempre a non farti capire, veramente, cos’era prima una lacrima e cosa sarà, poi, un sorriso perché la risposta non è mai nel bianco o nel nero, è nella comprensione dei grigi.

La vita è un viaggio infinito tra orizzonti finiti di tutti i giorni, c’è l’amore, il lavoro, la scuola, gli amici, la malattia, la gelosia, l’ipocrisia, l’ambizione, sono ieri, oggi e domani e vivere puó essere facile ma anche per un giorno soltanto può diventare difficile o impossibile.

E quando succede, quando piangi, ognuno per la propria età, ognuno per la propria debolezza, la forza non è scegliere tra chi prova a capire e chi, invece, non ha più tolleranza, tra chi usa solo la carota e chi non sa usare il bastone ma è continuare il viaggio, alla luce del sole, chiedendo aiuto a tutti, meno a chi non sa proprio capire, a chi fa finta di ascoltare, a chi fa spallucce, a tutti loro, tira tu il freno e falli scendere alla prossima.

Angelo Bianco

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