C’era una volta il presepe
Quando ero ragazzo in ogni casa si costruiva il presepe.
Non c’era Natale senza il presepe. In ogni famiglia si pensava, per tempo, a riservare un angolo della casa e in quelle più grandi perfino una stanza, per allestire questa forma d’arte sacra, che rendeva omaggio al Bambino, che stava per nascere.
I ragazzi sciamavano in particolari luoghi dove potevano raccogliere il muschio e le zolle di terra con particolare erba.
Si allestiva, con pazienza e amore, un presepe, che ricordava il nostro paesaggio. Proprio così, perché si riteneva che qui fosse nato il Bambino. Vi si costruivano i monti, le vallate, le pianure, le viuzze tortuose e strette, l’immancabile corso d’acqua con un ponte ecc. Quel ponte che, nella realtà, mancava in tanti punti del Comune, aveva la sua importanza, per evitare il guado, che non sempre era sicuro, per l’abbondanza d’acqua e per la presenza delle sabbie mobili.
Il presepe era la riproduzione di un sogno dove realtà e fantasia s’intrecciavano.
S’impiegavano giorni e giorni per realizzare quella “opera d’arte”.
Il presepe, come in ogni luogo dove si viveva, doveva essere popolato.
I vasai di Bisignano, per la bisogna, si sbizzarrivano nel creare le statuine, riproducenti i protagonisti della vita locale. Quei manufatti, però, avevano un costo e, date le scarse risorse economiche del popolo, non tutti potevano permettersene l’acquisto. Il presepe, però, doveva essere popolato e, come suol dirsi, si faceva di necessità virtù.
Quei ragazzi si recavano, perciò, in luoghi dove si poteva cavare lo gneis (in dialetto gnips). Lo si lavorava, inumidendo con acqua, e si dava vita a personaggi del presepe, così improvvisati.
I ragazzi divenivano artisti più o meno bravi. Quei loro lavori, però, avevano un pregio: erano belli, perché usciti dalle loro mani.
Oltre le persone sul territorio vi erano le case, le capanne, i pagliai; le botteghe artigiane; le attività varie svolte da maschi e femmine.
Qualcosa che potrebbe apparire anacronistica era il frate cercatore, col suo asino, sul quale caricava quanto la gente donava al convento.
Non era anacronistico, però, perché quel frate era presente nella società, nella quale si viveva e, perciò non poteva mancare nel presepe, che riproduceva, in gran parte la vita reale di quegli anni.
Ai giorni nostri l’attesa per allestire il presepe è scomparsa.
L’arte infantile, citata, è stata “uccisa” e insieme ad essa la fantasia, la voglia di produrre artisticamente ecc.
Si allestisce l’albero, che nulla a che vedere con la nostra cultura e le nostre tradizioni.
La poesia del Natale e del presepe è morta, soppiantata dal consumismo e dal “bell’e fatto”, che spesso, molto spesso imita qualcosa che ha a che fare con altre società diverse dalla nostra.
Giuseppe Abbruzzo