A proposito di Vincenzo Padula e di un canto popolare
Altre volte ho scritto di Vincenzo Padula e del suo amore, della sua ammirazione, del suo uso, in modo ammirevole, dei canti popolari.
Dato che alla mia età si vive, fra l’altro, di ricordi e, spesso, ormai, non sono più così lucidi come vorrei, il regalo della ristampa del Valentino – nell’edizione avvenuta anni fa ad opera della Libreria Germinal di Acri -, fattomi dal titolare Aldo Servidio, mi ha riportato a un ricordo.
Stranamente i ricordi mi sembrano riferirsi ad anni non troppo lontani ma, mi accorgo che, quello del quale scrivo, è databile al 1980 e, forse, da questo è avvenuta la mia confusione tra il poemetto citato e l’altro che s’intitola Sigismina.
Dato che ho fatto riferimento al poemetto Valentino, ricordo che l’autore lo dedicò ai genitori e lo diede alle stampe nel 1845, con la falsa nota tipografica: Palermo.
L’altro poemetto inedito fu dato alle stampe da Carlo Maria Padula, nel 1976, col titolo: Sigismina frammenti in gran parte inediti, a cura di Attilio Marinari.
Nel 1980 pubblicavamo “Confronto”. Io, con articoli e altro, sollecitavo, fin dal primo numero, che vide la luce nel 1975, lo studio della vita e delle opere di Vincenzo Padula.
Divorai il poemetto, soprattutto perché inedito, e vi trovai un canto popolare tradotto in italiano che, Rosalbo, uno dei personaggi, sollecitato, canta ad alcune ragazze. Queste spingono “innante” una di loro “che l’ardir del ragazzo ha nel sembiante, / e del suo sesso la malizia schietta” e a lei lo indirizza:
Tesi da terra a cielo un laccio d’oro
per pigliarvi le stelle ad una ad una;
la prima sera di quel mio lavoro
sospesa a sorte vi restò la luna.
Luna corse a sporre il suo martoro
sotto il trono di Dio pallida e bruna;
ma le rispose Iddio tali parole:
– Poggia più su, la via segui del sole-.
Marinari fa delle precisazioni nella nota 116.
Su “Confronto” (novembre 1979) scrissi le mie sottolineature, facendo rilevare, particolarmente, che quel canto non era da attribuire a Padula ma, era un canto popolare, che egli aveva egregiamente tradotto.
Il curatore del poemetto, letto quanto riportato, scrisse d’esser lieto che la sua ipotesi fosse stata confermata dalla mia precisazione: «”retroversione forse di un qualche motivo popolare” (il “forse” era doveroso per chi non aveva a disposizione il testo del canto popolare».
Mi ringraziava per la puntualizzazione e sollecitava: “mi auguro che la sua scoperta possa stimolare altri studiosi locali a ricercare i legami che strettamente uniscono l’arte di V. Padula con la cultura e le tradizioni popolari della sua gente”.
Il prof. Marinari ci ha lasciati da un pezzo. Sono passati 43 anni da quell’esortazione, ma nessuno, proprio nessuno di quanti si sono occupati del Padula ha ricercato quegli stretti legami.
Non insisto su questo “tasto dolente”.
Chi ne avesse voglia, dico a chi legge queste note, vada sul numero di “Confronto” citato e ripreso dal prof. Attilio Marinari e troverà la stesura dialettale del canto popolare tradotto.
Per farlo basta sfogliare le annate di quel periodico, che il nostro direttore Piero Cirino ha ritenuto opportuno porre a disposizione dei lettori, riproducendo le 40 annate.
Giuseppe Abbruzzo