Pensieri sparsi in un afoso pomeriggio di luglio
Il termometro di parete segna 36°, sono le 16 di un afoso pomeriggio di luglio in pianura padana, dove l’umidità e le zanzare contribuiscono a rendere il tutto ancora più pesante. I condizionatori vanno a manetta. A proposito, come facevamo quando l’aria condizionata in casa, in macchina o nei mezzi pubblici non esisteva? Ricordiamo la gente che arrivava in P.zza Annunziata da Cosenza col pullman delle 15, sembravano usciti da una sauna. Gli autisti, quasi tutti ben piazzati, avevano delle braccia enormi, sviluppatisi per il continuo ruotare su sterzi giganteschi e senza servo sterzo. Entrare nei pomeriggi estivi in quei mezzi era davvero arduo.
C’era chi, dovendosi recare in qualche ufficio a Cosenza, si portava dietro dei vestiti di ricambio. Una di queste scene del luglio 1979 ci si è appiccicata nella mente e ce la porteremo dietro per tutta la vita, per l’inevitabile significato umano e perché indicativa di un’epoca nella quale i rapporti umani, in molti casi, si limitavano all’essenziale e spesso neanche a quello.
Ricordiamo un’anziana signora che aspettava dalla mattina seduta in una panchina sotto un ippocastano vicino al luogo dove arrivavano i pullman da Cosenza. Arriva il primo, si rianima ma dopo pochi minuti si rimette seduta nell’attesa che arrivasse un’altra “lettorina” dal capoluogo.
Ne arriva un’altra e un’altra ancora e, ad ogni arrivo, la signora faticosamente si rialza e si avvicina al mezzo nella speranza, evidentemente, di riabbracciare qualcuno che non c’era. Arriva l’ultimo pullman delle 18.30 e, anche stavolta, la stessa scena e lo stesso epilogo. Alla fine, sconsolata, si rimette sulla panchina con la testa tra le mani. Ci avviciniamo e chiediamo se avesse bisogno di qualcosa. Ci dice di no. Ci spiega che il marito era ricoverato a Cosenza e che le aveva fatto sapere giorni prima da qualcuno che quel giorno sarebbe stato dimesso ma il mancato arrivo dell’uomo cominciava a preoccuparla. Il telefono non era diffusissimo nelle abitazioni.
La signora abitava col marito nel rione “acqua di macchia”, vicino a Cappuccini. Avevano un figlio scomparso qualche decennio prima. A vicenda si sostenevano e supportavano, cercando di sopravvivere. Le chiediamo se conoscesse il reparto, in modo tale che , dalla cabina telefonica di P.zza Annunziata, avremmo provato a telefonare. La signora ignorava il luogo dove il marito fosse ricoverato. Dopo circa un’ora (ne erano trascorse circa 12 da quando la donna era in inutile attese, senza cibo né acqua), arriva un vigile urbano con un altro signore: si avvicinano alla signora e cominciano a parlarle con un fare di circostanza che lasciava facilmente presagire il contenuto di quella conversazione. Dopo poco vediamo la signora piangere e disperarsi. Il marito non era arrivato quel giorno né avrebbe potuto farlo in futuro.
Era morto in solitudine in ospedale. La signora viene riaccompagnata a casa con l’auto del Comune. Quella scena, l’attesa, l’epilogo, ci turbò molto. Raccontammo l’episodio a casa e scoprimmo che il figlio era scomparso mentre faceva il suo lavoro di guardia giurata a Milano. Era stato ucciso da malviventi. Anche in quel caso, furono le forze dell’ordine a informare i familiari.
Qualche mese dopo la morte del marito la signora venne inviata in un ricovero, dove sarebbe morta in solitudine da lì a poco. L’immagine di quella donna sola, in una trepida e inutile attesa, il modo in cui aveva scoperto la scomparsa del coniuge, la sua stessa fine rappresentano un indicatore di un tempo e di una condizione opposta rispetto ai giorni nostri, dove i contatti sono forse eccessivi e spesso superflui. Meno di cinquant’anni fa, ad Acri, era possibile assistere a queste scene, specchio di un tempo andato e forse da non rimpiangere.
Massimo Conocchia