Quel duro pane di castagne!
Parlare del pane di castagne alle nuove generazioni è come tirare in ballo qualcosa di impossibile a mangiarsi. E, lo era per le passate generazione, costrette a mangiarlo per chetare la fame e per forza di cose.
Le famiglie numerose e misere vi ricorrevano più delle altre, per sedare i morsi della fame.
Era un pane dal sapore dolciastro e dal colore marrone. Ma salvò dall’inedia intere generazioni.
In tempo di guerra ne sanno qualcosa di quanto rappresentasse questo pane, per la sopravvivenza. Lo sanno i contadini stessi, tanto da far dire a Salvatore Scervini: “Non ha pani, chi lu fa!”. Proprio così, ironia della sorte: quello che produceva il pane, di grano o di segala o di mais, non ne aveva.
Uno studioso, Parmenter, tentò in tutti i modi di unire granaglie e altro alla farina di castagne, per ottenere un pane appetibile. Tutti i sui esperimenti non diedero i risultati sperati.
Nel dizionario di agricoltura, l’abate Rozier fa eco: “Nel mio Trattato della castagna si trovano le ragioni fisiche, che non permettono a questo frutto di cangiarsi in vero pane, sia che venga adoperato solo, sia che mescolarlo si voglia con dei farinosi presi dalle semenze o dalle radici polpose o amilacee”.
I genitori, al piagnucolare della loro prole, che non volevano mangiare di quel pane, disperati dicevano: – O chissu o petri! -, ossia: o mangi questo o in alternativa pietre.
Il citato autore riporta qualcosa a conferma di quanto ho detto in apertura: “Ho visto io medesimo il pane di castagna mangiarsi dal popolo in Calabria, specialmente nella Citeriore (ndr provincia di Cosenza). Ed oh! La dura condizione di quegl’infelici. Questo pane tenuto qualche giorno indurisce a segno che divider non si può che colla piccola mannaia, o accettulla, della quale van sempre armati. Un picciolo pane di castagna, del diametro di 4 pollici, esige un’ora di tempo per essere masticato. Allo sguardo si tale spettacolo, l’anima meno disposta a sentire non può sostenerne l’impressione”.
Considerava, il suddetto, alla vista di tale pietoso spettacolo: “Qual sarà poi il peso della sua digestione?”.
Eppure chi stava bene (Salvatore Colonna, nel 1872) e poteva permettersi il pane di grano, detto bianco, riteneva quello, appena sfornato di castagne un pane dolce e gustoso: “Il Torchio (ndr: periodico), che in sua buona pace sproposita non troppo di raro, assicura, che si tentò di fabbricare il pane di castagne, ma che non ancora vi si è riusciti. Il buon Torchio è assai scarso di notizie. Nel mio paese, e vo’ dire in Calabria, e propriamente a Catanzaro, si fabbrica e si vende e si compra e si mangia del miglior piacere di questo mondo, da tempo remotissimo”. A lui veniva l’acquolina in bocca a sentirlo nominare. Il suddetto, però, non avrà mai mangiato quel pane indurito, così ben descritto sopra. È proprio vero quanto tramanda il saggio popolo: – L’abbutto ‘un cridi allu dijunu!-.
Il prof. Colonna, docente nella scuola magistrale e tecnica poteva avere quel ricordo e mangiare cosa volesse, ma il misero, che certamente lui, il Colonna, guardava dall’alto in basso, non aveva scelta.
Il prof. non conosceva, da persona colta, il Ninfale fiesolano, nel quale si legge: “E pan, che di castagne allor faciano, / che grano ancor le genti non aveno”.
Ne ho scritto, perché le generazioni attuali dovrebbero non immaginare, ma venire a conoscenza da dove veniamo e quali pene e patimenti hanno subito e sopportato le generazioni passate.
Gli anni che ci separano dalle riportate situazioni non sono assai lontani e chi, da ignorante di tutto questo, sostiene che quegli antenati non hanno fatto nulla, per dare loro una vita comoda. Dovrebbero meditare e non poco su quanto riportato e affermato.
Giuseppe Abbruzzo