Divenni regista, senza conoscerne il significato

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Mio nonno materno era fantastico!

Non so se mettesse in atto un piano inconsapevolmente o volutamente. Non glielo chiesi mai.

Scoperta, all’età di sei anni finiti, la Poesia e la Recitazione, come scrissi altra volta, mi venne in mente qualcosa che per uno della mia età era impensabile.

Fra le poesie studiate e che seralmente recitavo, strappando sorrisi e applausi ai nonni, ve n’era una: un idillio tradotto dal Leopardi. Quando la recitavo, cambiando tono di voce e spostandomi di volta in volta, a seconda del personaggio che interveniva, pensai che sarebbe stato meglio se quella recitazione l’avessimo fatta in due: il nonno e io.

Alcete raccontava il sogno della luna che si staccava dal cielo e gli cadeva sul prato, Melisso era con i piedi per terra e faceva rilevare quanto falsi fossero i sogni.

Le parti da recitare erano quelle e il nonno avrebbe potuto fare quella di Melisso. Ne aveva tutte le caratteristiche. Lui, per me, sapeva tutto; era onnisciente. Mi dava, infatti, una risposta a ogni mio quesito.

A sera, pronti per la solita recitazione lo misi a parte della mia idea. Mi guardò in silenzio e dopo un po’ disse: – Si può fare, ma devi dirmi come farlo -.

Gli spiegai come intendevo fare e facemmo una prova. Un disastro!

Il nonno, che mi aveva insegnato e m’insegnava tante cose, mi sembrava un incapace. Non attaccava, a parer mio, nei tempi giusti; non recitava con espressione. Un disastro! Non capivo, allora, che tutto era fatto apposta, per sentire cosa e come intendevo fare.

Gli rispiegai la cosa; gli dissi che se lui non recitava la sua parte al tempo giusto la scena perdeva di bellezza. Gli facevo sentire come ritenevo fosse giusto e che dovesse recitare con naturalezza, come mi aveva insegnato lui.

Il nonno si divertiva a farmi andare in bestia e ne rideva. Protestava che non riusciva. Mi sembrava impossibile e mi accaloravo tanto che sudavo. Quando si raggiungeva il paradosso mi diceva: – Fai recitare tua nonna, che, forse, è più brava -.

– Non è possibile! La nonna è femmina e il dialogo è fra maschi. Devi farlo tu… Mi puoi fare questo favore?… Stai a sentire… Quando devi intervenire ti faccio segno con la testa… Anzi ti faccio segno col taglio della mano -.

Ripetevamo. Io a correggere, il nonno a sbagliare.

La cosa andò avanti per giorni.

Mi imbestialivo tanto che non rivolgevo più la parola al nonno. Non ne potevo più. A un certo punto glielo dissi chiaro: – Basta! Non ce la faccio più, reciterò le due parti da solo! -.

Non capivo come una persona così intelligente, così colta, come dicevano tutti, non capisse quello che gli chiedevo di fare. Replicai: – Allora se t’impegni… bene, se no è l’ultima possibilità che hai… Poi basta, perché non ne posso più! –

Mi pregò di non farlo e di farlo riprovare. Gli diedi quell’ultima possibilità, avvertendolo: – Attento, però, che questa è l’ultima possibilità -. Recitò con i tempi giusti e come volevo io.

– Finalmente ci sei riuscito? – gli dissi soddisfatto. Chiesi il giudizio della nonna-spettatrice: – Questa volta è andato bene; è stato bravo… Ce n’è voluto, ma è stato bravo -.

Non capivo che quello che a me sembrava un lavoro, per loro era un gioco. In quel gioco ero io a movimentare la scena con le mie trovate, con le mie fantasie.

Sembrerà strano, ma scoprivo la regia inconsapevolmente. Non sapevo nemmeno cosa fosse e se vi fosse qualcuno che la facesse come professione. Ritenevo che tutto fosse una mia invenzione. Il nonno da Maestro l’avevo trasformato in allievo. La sua parte la recitava bene.

Non capisco, ricordando, se facesse tutto per divertirsi o se, come diceva mia madre pensava che fossi diabolico e lui ne profittava per istruirmi, divertendo e divertendosi anche lui.

Ho avuto davvero un nonno fantastico!

Giuseppe Abbruzzo

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