W la Repubblica Calabrese!

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“Lo dico a viso aperto: a noi manca la piena coscienza storica, e riteniamo la Calabria come l’ultima delle provincie italiane”.

Così precisava Vincenzo Julia in uno scritto minimo in morte di Vincenzo Padula. Siamo, perciò, nel 1893.

Ai tempi nostri, a distanza di oltre un secolo, quell’idea negativa non esiste più o è ancora viva?

È da ritenere con certezza che essa perduri.

Le colpe? Le diano gli amabili Lettori, come diceva un noto autore.

Tempo fa ho scritto su Marco Berardi. Chi ricorderà quell’articolo non farà fatica a ravvisare come i potenti siano abili a falsare la storia, che diviene una storiella e non Storia, perché confezionata a uso e consumo delle classi dominanti.

Berardi, perciò, veniva e viene presentato come brigante. Fu definito così, perché tale lo classificarono gli Spagnoli e la Chiesa del tempo, per puro interesse.

Per noi, invece, era un eroe e un precursore dei tempi.

All’epoca in cui le popolazioni del Nord Italia vivevano sotto il giogo dei potenti, assoggettandosi passivamente, in Calabria c’era chi organizzava le masse per conquistare la Libertà.

La scuola, che dovrebbe insegnare la verità storica, però, non si discosta dal libro di testo, che osanna alcune regioni e alcuni personaggi e, volutamente, ignora altri e continua, a bollare col termine briganti quanti hanno osato ribellarsi alla opprimente autorità costituita.

Per tutto questo non si deve nominare Marco Berardi e non si deve studiare l’altro perseguitato di quel tempo, nientemeno che Tommaso Campanella.

Qual era la colpa di questi due per essere messi a tacere?

Marco Berardi, condannato a morte dal Tribunale dell’Inquisizione, per essere Valdese, ossia per un delitto, che si potrebbe dire di opinione o se volete di credo religioso non conforme a quello cristiano; Tommaso Campanella per i suoi scritti di denuncia verso una Chiesa corrotta e per aver condiviso l’idea politica del Berardi.

Qual era questa idea? C’è chi si meraviglierà, per essere così avanzata.

Berardi, Campanella e compagni mal sopportavano il giogo spagnolo, – del quale scrive, anche, il Manzoni -, e, perciò, organizzarono una congiura contro quei dominatori.

Il primo costituì un esercito. Il papa, avverso, in un primo momento agli Spagnoli, lo assecondò.

Si sa, però, che certi papi, un tempo, miravano più alle cose terrene che a quelle spirituali e, così, per interesse, quello dell’epoca passò dalla parte degli oppressori e scomunicò quanti avevano osato seguire Berardi. Egli da amico del papa si trovò scomunicato e chi l’avesse seguito avrebbe subito la stessa sorte.

Berardi, così, si ritrovò solo, seguito unicamente dalla sua compagna Giuditta.

Fra Tommaso Campanella, domenicano, che fine fece? Fu perseguitato per le sue idee, per i suoi scritti, per aver ordito la congiura con Berardi, fu perseguitato e condannato a morte.

La persecuzione durò ben venticinque anni. Fu trattato in modo inumano dalla Chiesa del tempo. Gli furono bruciati gli scritti, che riscrisse. Il papa, però, non riuscì a far eseguire la condanna a morte, perché i Calabresi, si sa, hanno ‘u vizzarru pilu. Fu così che il furbo frate si finse pazzo e, dato che i pazzi non potevano essere uccisi, fu tenuto in quel “limbo”, finché il re di Francia, capita l’antifona, non lo liberò.

Qual era la loro massima reità? Avevano dato vita, nella loro ribellione, ad una forma di governo rivoluzionaria per quei tempi: avevano proclamata la Repubblica Calabrese.

Per noi Calabresi i due dovrebbero essere di esempio.  Dovrebbero essere presentati come campioni della Libertà, perché osavano, per primi a parlare di Repubblica. Invece? Berardi, si disse, brigante, e lo era se con questo termine indichiamo il ribelle; Campanella si disse pazzo, che come tale farneticava, per far salva la vita.

Lasciamo stare Berardi, ma Campanella, al quale si è intitolato il palazzo del Governo regionale, quanti lo conoscono in Calabria? Quanti ne studiano le opere? Quali scuole lo riabilitano?

Le scuole non lo studiano perché, in tempo di monarchia, si è bandito e fatto ignorare. Era pericoloso allora; lo era in tempo di monarchia, ma, stranamente, continua a esserlo in tempo di repubblica.

Noi cosa dovremmo dire?

Concludiamo con l’altra sottolineatura di Vincenzo Julia: “Qui (ndr in Calabria) l’ingegno, se non è deriso è combattuto, e si vuole ritenerlo ad ogni costo sotto il moggio”.

Giuseppe Abbruzzo

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