Una storica malalingua: Pietro l’Aretino

Pietro nacque ad Arezzo, perciò l’Aretino. Qualcuno sostiene che, per non fare scoprire le sue umili origini, abbia abiurato al cognome, che gli derivava da un padre calzolaio.

Passò alla storia come una maggiore malalingua del passato.

Questa sua prerogativa fece sì che ognuno, accortamente, evitasse di finire sotto i suoi strali.

Si sa che si trasferì a Roma e intrallazzò per essere presentato al papa Leone X e al cardinale Giulio dei Medici, futuro Clemente VII. Era quello che ai tempi nostri si dice un arrampichino e un adulatore dei potenti, per dirla con un termine benevolo.

Per aver composto sonetti scandalosi, insieme ad altri della sua risma, fu costretto a scappare.

Dovunque andò scrisse prose e versi laudativi, per quello che diciamo lecchinaggio, e minacciosi contro tutti, in particolare contro quelli che intralciavano le sue mire.

Un noto critico letterario scrive che l’Aretino diceva d’essere poeta, ma lo era solo, perché lo diceva lui e nessuno osava contraddirlo. Eppure, l’Ariosto lo dice “il divin Pietro l’Aretino”!

Ai tempi nostri, esistono suoi eredi comportamentali? Fate mente locale, amabili Lettori.

La fine di quest’eroe della maldicenza e dell’adulazione dei potenti è degna di lui.

Notizia dettagliata ce la dà Ludovico Dolce, in una lettera diretta a un suo amico il 30 ottobre 1556.

Dolce, vi si legge, andò a far visita a l’Aretino. Vi convenne Tiziano. Quest’ultimo comunicò a Pietro che Francesco Doni gli aveva scritto la “sua sozza vita”, intitolandola Terremoto.

Mentre proseguiva il racconto si vide la testa del Doni al di là della balaustra del balcone. Non solo, ma questi disse all’Aretino di essere pronto a pubblicare quanto aveva scritto, con l’intenzione di additarlo al generale ludibrio.

Pietro lo minacciò di botte, da parte dei suoi familiari, se avesse osato far tanto. Il battibecco furioso, però, gli provocò un malore, anche perché non accettava quello che lui aveva fatto ad altri. Tale e tanta fu l’amarezza che l’Aretino se ne andò all’altro mondo.

Paolo Giovio, mentre Pietro era in vita, gli indirizzò il seguente epigramma:

Qui giace l’Aretin, poeta tosco,

che disse mal d’ognun fuor che di Cristo,

scusandosi col dir non lo conosco.

Giuseppe Passi, nel suo Monstruosa fucina delle sordidezze degl’huomini, riporta un’altra versione:

Qui giace l’Aretin, poeta tosco,

che disse mal d’ogn’un fuor che di Dio,

ma si scusò dicendo nol conosco.

“La risposta fu degna dell’Aretino – scrive un letterato -, quindi la decenza mi evita di riferirla”.

Perché mai? Quella risposta è dello storico Giovio. L’abbiamo rintracciata ed è la seguente, a meno che non ve ne sia qualche altra:

Qui giace il Giovio, storicone altissimo;

di tutti disse mal, fuorché dell’asino,

scusandosi col dire: – Egli è mio prossimo-.

Ogni tempo, purtroppo, ha gli eredi di Pietro l’Aretino.

Giuseppe Abbruzzo

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