Per quel pizzico di tabacco!
Nell’Ottocento era uso aspirare, attraverso il naso, il tabacco in polvere.
Padula compone una pagina bellissima, dedicandola, proprio a quella scatolina, che conteneva la polvere della quale deliziava il suo naso.
Il Croce, che lo seguiva, “sperando che cadesse”, per poterlo soccorrere, dice che aveva l’abito lordato dal tabacco.
Il Nostro, nel 1844, compone, a Bisignano, la pagina anzidetta, titolando: La mia tabacchiera.
Verrà pubblicata, per la prima volta nel periodico cosentino Il Calabrese.
Questo l’attacco: “Un grande ministro francese faceva all’amore con un gatto, ma io che non ho gatti, perché non ho topi, e non ho topi perché più povero di Belisario, io, o Lettori, amoreggio con la mia tabacchiera”.
La tabacchiera lo ispirava, per quanto componeva e scriveva, così almeno dice lui.
Sottolinea, infatti: “Ivi pensieri, ivi immagini, ivi sentimenti: colà è chiusa la mia ragione, la mia fantasia, il mio sensorio comune, da cui sgorga tutto il vario popolo dei miei pensieri”.
Non è che qualcuno, nel leggere queste parole, verrà tentato di fare altrettanto, nella credenza che sarà, poi, capace di scrivere, comporre e poetare alla stregua di don Vincenzo!
Il genio non è nella tabacchiera, ma nel cervello. La genialità non si vende in polvere e, purtroppo, non c’è modo di acquistarla con qualche mezzuccio. O la si ha o…
Chi volesse leggere per intero quanto scrive Padula lo troverà a pag. 186 di Prose giornalistiche.
Ora, però, devo fare un’altra precisazione, oltre quelle su riportate, per sostenere la mia tesi.
Vi era, tra il popolo chi pigliava la pizzicata, ossia prendeva un pizzico di tabacco in polvere e aspirava. Al posto di quanto scriveva Padula va detto, però, che ne sortivano solo miseri starnuti. D’altra parte il popolo, intelligentemente pensava che il fiutare produceva solo un misero godimento, per il quale si doveva pagare. La conseguenza era solo e semplicemente data dal piacere momentaneo e dall’alleggerimento della tasca.
Il poeta popolare che aspirava quella polvere componeva i versi seguenti, che non commentiamo, perché ogni lettore sarà capace di farlo da solo.
Si sottolinea solo che il poeta popolare non perdeva occasione per evidenziare vizi, amori ecc. ecc., ma fate voi!
Tabaccu, mari mia, cumu si’ duci!
Chini t’ha macinèatu mali fici!
Ci appizzu li dinari e ‘un iesci a luci
si pu’ ni duni puri alli tua amici.
Si mi facerra lu cuntu a minutu:
quant’haju persu, ppe’ ‘ss’ erramu nasu!
M’avissi fattu ‘n abit’ ‘e vullùtu
e paria ‘nu ditturu ‘ntitulàtu.
La fimmina m’ha d’atu ‘n’ avertenza,
m’ha dittu: – Nun pigliari cchiù tabaccu,
ma iu, lu vuogliu fari ppe’ dispìettu:
quann’haju tricavalli, mi l’accattu! -.
Il tre cavalli era una moneta battuta fino al 1804 nel regno di Napoli. Era detta così perché nel “retto” aveva impressa la figura del re e nell’esergo quella di un cavallo.
Come si vede il popolo sa scherzare su aspetti della sua vita.
Giuseppe Abbruzzo