Ester
Ad accrescere la malinconia di Ester per la partenza della sorella, era arrivato anche l’inverno.
Improvvisamente, tutto in meno di un’ora.
C’era stato un solo tuono, e a seguire una pioggia obliqua, furiosa, sferzante che le aveva allagato la terrazza a vetri e il giardino.
Dopo la pioggia era arrivata anche la nebbiolina da una parte della valle all’altra, inghiottendo i cipressi, il viale, le case, il paese intero.
I suoi occhi nocciola, vispi e sempre in cerca di novità, osservavano con uno stupore quasi infantile, il paesaggio sgretolarsi e rimpicciolirsi per effetto della nebbia, mentre sorseggiava in poltrona il suo tè accanto alla finestra aperta, unico contatto, oramai, col mondo esterno, essendo i visitatori rari, molto rari.
In alto sul parco della “Caccia” il cielo invece si era illimpidito con una trasparenza cupa di violetta sulla cupola della Basilica del Beato Angelo, attorno alla quale, le ultime nuvole, oramai pallide e opalescenti, salivano nel bagliore del tramonto.
Non riusciva ancora a chiamarlo Sant’Angelo, proprio non le veniva, che non gliene volesse il Santo ma la parola Beato nella sua testa si era adagiata prima e ora per una sorta di pigrizia mentale continuava ad avere la meglio.
Ripose la tazza sul tavolinetto in noce, pieno di oggetti di cristallo e argento, e restò a meditare osservando il ritratto di Paola.
Come era bella e melanconica sua cugina in quel ritratto, pensò.
Si appoggiò allo schienale della poltrona bianca in pelle con la punta delle dita congiunte e rimase in silenzio con i suoi pensieri.
Si immaginava i seminaristi dalle facce ingenue che uscivano nel chiostro per andare a celebrare i vespri sussurrando a voce bassa “Brrrr che freddo…tutto d’un tratto è arrivato l’inverno. E pensare che fino a ieri faceva caldo, Padre Gaudenzio mi ha detto che la temperatura oggi è scesa a otto gradi, a me a dire il vero quello che più infastidisce è quest’aria di tramontana che penetra l’anima, altrimenti il freddo lo sopporto abbastanza. A San Sosti faceva molto più freddo che ad Acri, quando soffiava vento dal Pollino si battevano i denti sia d’inverno che d’estate.”
Ester si chiedeva in tutta coscienza se questi ragazzi sapessero fino in fondo a cosa andavano incontro. La loro sarebbe stata un’esistenza di privazioni e rinunce. Avrebbero passato la sera a pancia in giù sul letto a studiare la Bibbia, sgranocchiando biscotti secchi, senza mostrare alcun interesse per le fanciulle che passeggiavano e ridevano sotto le mura del convento? o lo scroscio di quelle spensierate risate avrebbe scaldato il loro cuore, facendo vacillare la vocazione sotto i colpi del dubbio e dell’audacia del libero pensiero? La loro fede religiosa sarebbe stata solida per sempre immunizzandoli dalle mille avversità della vita? si domandava, mentre si abbottonava il cardigan blu stringendosi nelle spalle, come era solita fare quando l’ansia iniziava a tormentarla facendole cambiare posizione.
Non è forse vero, si diceva, che a dispetto della nostra saggezza e volontà spesso siamo tentati dal dubbio, dalla bellezza, dalla trasgressione, dal miraggio di un’altra vita possibile? e che malgrado ognuno di noi abbia fatto delle scelte consapevoli questo non ci tutela dal demone del Caso, che quando meno te lo aspetti irrompe nella nostra vita seminando incidenti, difficoltà, perdite, strappandoci tutte le nostre certezze, la nostra fede, i nostri progetti, facendoci precipitare nell’indefinito tumulto del Nulla?
Fragili, indifesi, incapaci di reagire, sentiamo che la nostra esistenza non ha più un disegno preciso, e l’unica attività eroica concessaci è guardare in faccia la realtà senza la menzogna della depressione, senza il rifugio nei sonniferi, senza l’inganno delle illusioni.
Era talmente assorta nei suoi pensieri da non accorgersi che la temperatura era scesa e dalla finestra stava entrando aria fredda. Le lambiva le caviglie e saliva fino alle ginocchia, perciò si alzò per chiuderla.
“Ecco fatto”, esclamò tirandosi in piedi e avvicinandosi alla finestra.
Vide che la nebbia si era dileguata, udì il traffico mormorare in lontananza, guardò preoccupata il giardino inondato d’acqua. “Speriamo non abbia fatto danni” si disse, andando indietro col pensiero all’ultimo temporale che le aveva annegato i cespugli di ribes e infangato tutti quei deliziosi frutti.
Le foglie delle roggianelle sgocciolavano, le ultime rose apparivano sciupate, col capo chino, piegate dall’acqua in eccesso, con pochi petali sopravvissuti.
Quanto amava le rose!
Da quando abitava in quella casa aveva piantato di tutto, gigli, camelie, ortensie, tulipani, ma le sue preferite restavano le rose. Solo ad esse apparteneva la perfezione, ovvero quell’equilibrio fra bellezza, compostezza e profumo, inarrivabile per tutti gli altri fiori. Con le rose potevano rivaleggiare solo le aristocratiche calle. Perciò in tutti quegli anni in occasione di compleanni, anniversari, matrimoni di parenti e amici aveva provveduto lei stessa a tagliarle e infiocchettarle per regalarle, poi una domenica pomeriggio, era successo qualcosa di inspiegabile: chinata per recidere dei boccioli da omaggiare alla zia Nora per il suo compleanno, era stata colta da un’improvvisa mestizia, la sua mente era stata attraversata da strani pensieri e suggestioni, fanciullagini avrebbe riferito lei stessa, la sera di quel dì, alla sorella di Bologna al telefono.
Aveva immaginato che quel taglio potesse essere una sofferenza per la pianta, perché anch’essa era viva, come lei, come il vento, come le nuvole, come la luce che dardeggiava dappertutto, fino all’erbetta più bassa, dal giardino al ciliegeto. La mano destra d’un tratto aveva preso a tremarle, si era messa a fissare le forbici a mezz’aria senza avere il coraggio di ripetere quel semplice gesto fatto tante volte, senza attribuirgli una particolare importanza. Se avesse potuto specchiarsi, avrebbe visto i suoi occhi riempirsi di tenerezza e rimpianto, lì immobile sotto la luce impietosa del sole mentre riponeva le forbici nel cestino con evidente sollievo. Da allora era passata ai cioccolatini. Le cesoie e le forbici venivano usate solo per potare.
Prima di chiudere la finestra lanciò un prolungato sguardo in fondo alla strada dove si trovava la sua scuola, il Liceo classico. In realtà a quella distanza lo vedeva solo con gli occhi del cuore. Le fiorì un impercettibile sorriso sulle labbra sottili ma regolari, belle.
Si fermò a pensare, a ricordare.
Il ricordo le procurò un sentimento simile alla felicità, perché quello era stato uno dei periodi più felici della sua vita.
Che anni pieni e spensierati, malgrado lo studio, malgrado le versioni, malgrado tutte quelle ore al chiuso della scuola, mentre i suoi coetanei sfrecciavano liberi lungo Via Campo sportivo, e che belli i pomeriggi trascorsi al Bar Azzinnari con i compagni di classe a giocare a flipper e sentire le canzoni dal jukebox, imbastendo progetti per il futuro in mezzo alle nuvolette di fumo di Salvatore.
La sua canzone preferita era Flashdance What a feeling.
Ogni tanto la ballava da sola in mezzo al locale davanti al proprietario che la guardava incantato con in mano il vassoio dei gelati.
Richiuse la finestra, si alzò il collettino del cardigan e sorrise.
Aurora Luzzi