Una casa-atelier del centro racconta storie di amore e violenza sulle donne
“Io credo nell’amore”: con il volto tumefatto, gli occhi che lacrimano, una storia di terrore domestico interpretata e rivissuta con un’intensità che quasi spinge a intervenire, Alessandra ripete quella frase: “Io credo nell’amore”. E lascia su noi, spettatori indaffarati e indifferenti di tante storie come questa, l’onta, la vergogna, il rimorso, il senso di smarrimento. Nel diluvio di parole e immagini piovute da ogni schermo nella giornata contro la violenza sulle donne, è un pugno di attori in un’ambientazione speciale a catturare l’attenzione e riportare il dramma lì dove è sempre vissuto, sotto i nostri occhi.
Le mura cantano un dolore antico, nel cuore del centro storico di Acri, dove Lucia Paese ha creato il suo atelier nel posto in cui un tempo c’era un locale speciale, il Jazz. Lei, l’artista, racconta la disperazione di troppe donne in sculture, quadri, maschere, affreschi. L’antica dimora sembra con le sue pietre essere testimonianza sorda ma ineluttabile di vicende da millenni troppo uguali. E mentre un ristretto, quasi eletto, pubblico prova a ritrovare l’orientamento tra opere d’arte dai colori e materiali così vivi che vengono fuori da ogni spazio, ecco i sette della compagnia Tamm che irrompono nella sala ripetendo con insistenza le frasi di sempre sulle donne vittime di violenza: “Se l’è cercata”, “Chissà come era vestita”, “Perché non lo lasciato prima?”.
L’invitato sta ancora provando a cacciarsi di dosso quelle parole, sì, tante volte ascoltate, o perché no, ripetute stancamente, che ora le pareti dell’atelier di Paese fanno rimbalzare addosso come un atto d’accusa, ed ecco che Francesca, giù, in fondo, da un pozzo di disperazione ci trasporta di nuovo nel ruolo degli imputati. Imputati di indifferenza e silenzio mentre lei veniva uccisa dal fidanzato e buttata giù, nel pozzo, dove la sua anima brucia di rabbia per quella società che nemmeno da morta, dopo mesi e mesi, riesce a vederla mentre lui, l’assassino, fintamente straziato, occupa lo schermo televisivo.
Lo spettatore si sta ancora riprendendo dalle sberle in romanesco di Francesca, e dalla grotta sbotta Rosanna nella violenza del calabrese più antico per catturare il pubblico in una storia di secoli fa, tempi di violenza, briganti e giustizia sommaria, in cui la vittima dimenticata da tutti è solo lei. Lei madre di un figlio ucciso, lei moglie di un marito che per vendetta è “salito in montagna” lasciandola sola, lei donna violentata e svergognata in paese proprio perché senza nessuno. Le parole sono del Padula a sottolineare ancora che quella violenza sul corpo, la mente, l’anima delle donne viene da lontano, molto lontano.
Dalle fondamenta si ritorna nei piani alti, dove si viene trascinati da Alessandra in una storia di urbana banalità del male, dal fidanzamento al matrimonio fin quasi alla tomba tra diktat, ordini e botte nel mantra “Io credo nell’amore” che, ad un certo punto, diventa slogan di libertà e vendetta e conduce lei alla denuncia e alla fuga.
Quando questo incredibile atto teatrale è finito, e, quasi, si vorrebbe riprendere fiato, qualcuno si avvicina ad Alessandra, ancora con il volto tumefatto, ma solo per artificio scenico, per dirle di ripulirsi la faccia, che fa una certa impressione. Poi, si gira, e con un po’ di vergogna aggiunge: “No, lascia stare, quei segni sono un atto d’accusa che ci meritiamo”.
Eccezionali gli interpreti della compagnia Tamm (Alessandra Pettinato, Francesca Cofone, Rosanna De Marco, Andrea Arciglione, Luca Cirino, Antonio Palopoli, Francesco Gaccione), incredibile l’ambientazione di una casa-atelier antica che, mentre i più fuggono da Acri, Lucia Paese fa rivivere in mille forme d’arte alimentando la speranza di una rinascita culturale che spinga a restare alle porte della Sila.
Fulvio Scarlata
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