Il conflitto tra Israele e Hamas: la diplomazia islamica in campo

Sabato scorso, i leader dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) e della Lega Araba si sono riuniti a Riad per un vertice sulla guerra tra Israele e Hamas. 

Nonostante il consenso sulla necessità di un cessate il fuoco, la dichiarazione finale della conferenza ha mostrato, ancora una volta, che i paesi arabi e musulmani hanno opinioni contrastanti su come affrontare la questione palestinese. 

Mentre alcuni paesi hanno adottato una posizione più assertiva nei confronti della guerra, quelli che hanno rapporti diplomatici consolidati con Israele si sono tirati indietro, sottolineando la necessità di mantenere canali aperti per il dialogo. 

In un contesto segnato da queste prospettive polarizzate, l’Arabia Saudita ha abilmente navigato in un delicato atto di equilibrio. 

L’Arabia Saudita ha dimostrato il proprio potere di convocazione e ha abbracciato il suo ruolo di leadership nel mondo arabo e islamico, nonostante gli evidenti rischi nel farlo. 

Lo scenario attuale è difficile da navigare. 

Con diversi paesi arabi effettivamente intrappolati da accordi di normalizzazione e altri che richiedono misure irrealistiche, come il boicottaggio del petrolio, l’Arabia Saudita è ben posizionata per mantenere la via di mezzo. Le priorità immediate sono due: imporre un cessate il fuoco rapido accompagnato da sostegno umanitario ai palestinesi e impedire un’espansione regionale del conflitto. 

Sebbene la richiesta di un cessate il fuoco sia contraria alla posizione iniziale americana, l’amministrazione Biden potrebbe apprezzare la leva che fornisce l’Arabia Saudita per limitare gli eccessi dell’avanzata israeliana, che rischia di sfociare in un conflitto a livello regionale. 

Un altro attore chiave è stato il presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Ebrahim Raisi, la cui presenza al vertice ha attirato l’attenzione. 

Nonostante abbia colto l’occasione per consolidare il riavvicinamento con Riyadh, Teheran ha ridimensionato la dichiarazione finale della conferenza, definendola “un testo forte” che, tuttavia, include disposizioni su cui l’Iran aveva riserve. 

Tra i paesi che hanno preso parte al summit, il Qatar si è distintocome quello probabilmente più coinvolto nei negoziati tra Israele e Hamas. Gli sforzi di Doha sono ambiziosi e riflettono l’intenzione del Qatar di prevenire la regionalizzazione del conflitto.

Gli obiettivi di mediazione del Qatar nella guerra tra Hamas e Israele sono diversi dai suoi precedenti sforzi diplomatici, dal momento che il conflitto si sta verificando in Medio Oriente. 

Per questo motivo, Doha mira principalmente a costruire canali di negoziazione tra le parti in conflitto per prevenire l’espansione regionale, uno scenario che potrebbe anche ostacolare le economie degli stati del GCC, Consiglio per la cooperazione nel Golfoistituito nel maggio del 1981 dai paesi arabi facenti parte del Golfo Persico.

Al contrario, il precedente attivismo diplomatico del Qatar in Afghanistan, Ciad e persino nella guerra Russia-Ucraina (dove Doha ha mediato il rilascio dei bambini ucraini detenuti in Russia) è stato per lo più guidato da obiettivi di soft power, con l’obiettivo di migliorare il suo status e prestigio internazionale. 

Tuttavia, c’è un punto più sottile che potrebbe in parte spiegare gli sforzi di mediazione di Doha tra Hamas e Israele: la partnership con gli Stati Uniti. 

Una buona prestazione diplomatica è fondamentale per questa relazione di lunga data, sulla quale entrambi i paesi si stanno muovendo da diverso tempo.

Un pensiero sull’altro conflitto, quello tra Russia e Ucraina.

L’apertura del fronte mediorientale, ha generato una situazione di “stanchezza” rispetto all’Ucraina, termine questo crudo ma che rende bene lo stato che si vive attualmente, quasi a voler significare che i paesi che sostengono la guerra di Kiev senza farla abbiano il diritto di tirarsi indietro. 

Divisioni emergono negli Stati Uniti sul sostegno all’Ucraina, che inevitabilmente cresceranno con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nel paese. Lo stesso vale, in misura minore, anche per l’Europa, che ha avviato i negoziati per l’ingresso del paese nell’UE, il cui percorso è comunque lungo e complesso.

Anche se finora nessuno ha chiesto agli ucraini di smettere di combattere e avviare un negoziato, Kiev teme uno sviluppo di questo tipo.

Simile quadro di incoerenza nuoce alla causa ucraina e favorisce Vladimir Putin. L’aggressore dell’Ucraina, infatti, oggi si presenta come difensore dei palestinesi bombardati. 

In questo senso l’Ucraina corre il rischio di diventare un’altra vittima collaterale del conflitto tra Israele ed Hamas.

Angelo Montalto

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