Un canto popolare e la Baronessa di Carini

Tempo fa scrissi sulle colonne di “Confronto” – del quale il nostro Direttore ha voluto mettere in rete le quaranta annate -, un canto popolare simile al napoletano Fenesta ca lucive, per il quale si discute sull’autore della musica.

Il canto è comune nell’Italia del Sud con varianti adattate a situazione e aspetti del luogo.

In quell’articolo mettevo in evidenza le ipotesi di alcuni sulla nostra versione, sull’ipotetica derivazione da la Baronessa di Carini, come sostiene il siciliano Salomone-Marino, ecc.

Una voce autorevole, quella del D’Ancona dissente e, dopo riportata una diversa versione, da quella da me raccolta in Acri e già pubblicata, riporterò il detto pensiero. Questi i versi:

È chiusa la finestra, amaru iu!,

duv’affacciàva la mia ‘nnamuràta.

Mo’ nun ci affaccia cchiù, cumu solìa,

criju ca intr’ ‘u liettu sta malata.

Affaccia la sua mamma e dici a mia:

– Chilla, ch’amavi tuni, è sutterrata.

S’ ‘a vu’ vidìri, va a Santa Maria,

ch’ ‘a manu manca la truovi jettàta -.

– O sacristanu, fammi ‘nu piaciri,

tenimiccèlla ‘na lampa allumàta.

Sùrici e biermi de Santa Maria,

carni de la mia bella nun toccati,

cà, ‘ncapu all’annu, mi ni viegnu iu

e de li carni mia vi n’abbuttàti!-.

L’opinione del D’Ancona, alla quale si è accennato di sopra, in contrasto col Salomone-Marino, è la seguente: “Non ci sentiamo così persuasi (…) della intrinseca colleganza di questi Canti col poema storico, né ci pare che formino corpo col resto, per modo che abbiano a dirsene parte necessariamente integrante e a poco incorporati e amalgamati nella narrazione degli amori infelici di Caterina La Grua; né il fatto avrebbe in sé nulla di nuovo, e di straordinario, per chi conosca i procedimenti della popolare poesia”.

Si fa, poi, riferimento alla musica diversa da quella del poemetto siciliano.

Un parere sulla bellezza del canto è dato da Apollo Lumini, che si occupò, nell’800 di cultura popolare e, quindi dei canti: “la rettorica non affoga il sentimento, e la situazione veramente drammatica vi è colta nei suoi momenti, e ritratta con mano maestra”. Giudizio sintetico, questo, ma che rende bene lo stato d’animo dell’autore dei versi popolari e la situazione che lo ha generato.

D’altra parte la perfezione di questo e dei tanti canti popolari ha fatto supporre ad alcuni studiosi – li riteniamo poco attenti e poco a conoscenza di come nascessero quei canti -, che essi fossero opera di persone colte. Giudizio, errato, che, fra l’altro, negherebbe sensibilità poetica nei cuori innamorati o sdegnati dei popolani.

Il popolo si esprimeva non nella lingua colta o nazionale, che dir si voglia, ma nella sua lingua, con i suoi modi di esprimersi, nei metri che “ad orecchio” aveva appreso nelle cantilene e nei canti uditi e colti dalla bocca di anziani.

Anni fa, nel corso delle mie ricerche, chiesi ad uno dei miei informatori come si comportasse un popolano analfabeta, che lui aveva conosciuto, per comporre canti bellissimi. Mi fu risposto che l’anzidetto si faceva esporre cosa si volesse “comunicare” col canto e gli dava appuntamento dopo mezzora. Allo scadere del tempo aveva pronta l’ottava popolaresca, così cara al Padula, che poteva essere d’amore, di dolore, di sdegno, ecc. a seconda della situazione.

In questo va notata la facilità di verseggiare di un analfabeta e l’alta capacità di sintesi.

Quest’ultimo aspetto fa riflettere se si pensa che, un tempo, il componimento più breve, in lingua nazionale, era il sonetto (14 versi) e il nostro poeta popolare racchiudeva tutto in una sestina o in un’ottava. Di questi canti ne ho raccolto moltissimi e m’accorgo che tanti Poeti li han saccheggiati.

Giuseppe Abbruzzo

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