La verità sul caso Briatore (seconda parte)

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Francesco e Giuseppe, i medici di turno al reparto di Medicina nucleare, proprio non se lo aspettavano che fare la PET a Briatore sarebbe stato così complicato e pieno di insidie.

Nessuno, nemmeno la sua urologa sapeva che l’uomo era terribilmente claustrofobico e che per fare una TAC, dieci anni prima, quando era ancora spostato con Elisabetta e doveva levarsi un polipo, si era fatto sedare. Era entrato e uscito dal tomografo una dozzina di volte, aveva offerto 10.000 euro a Francesco per scrivere un referto falso, infine lo aveva supplicato di addormentarlo. E così il medico, esausto e in ritardo col calendario della giornata, lo aveva accontentato. Aveva voluto mettersi nel petto anche l’immagine della Madonna degli Angeli di Cuneo, alla quale, aveva riferito a Totonno, l’infermiere che lo preparava all’esame, era molto devoto.

Totonno dentro di sé diceva “Lo so io a che sei devoto, fetuso ammasso di grasso e soldi, quando vi fa comodo pure voi ricchi pregate i santi”. 

Il misterioso pennuto, alle lezioni di Diego Fusaro si era messo a cagare, e quando Bertolaso si era rassegnato a sparargli perché non ne poteva più, non tanto della resistenza dell’animale quanto delle baggianate del filosofo, esso, udendo la suoneria del cellulare, l’Aria sulla quarta corda di Bach, si era addormentato. Bertolaso lo aveva quindi portato al Campus di Veterinaria per farlo analizzare e classificare prendendosi il merito della cattura dell’uccello, intrattenendosi col vecchio calvo veterinario al quale aveva chiesto se c’erano possibilità di dare all’animale il suo nome, poiché un “rara avis bertolasianus” lo avrebbe visto bene nei nuovi manuali di ornitologia. In fondo quell’incapace di Fusaro non era stato di alcun aiuto, mentre la sua suoneria era stata in grado di fare capitolare l’uccello.

Intanto le prime immagini della PET a Briatore avevano disorientato i medici che avevano interpellato il primario, il famoso Dottor Caprasecca, originario di Catania.

“Questo è un caso oltremodo strano, mai nella mia lunga carriera ho visto una PET simile. Sembra La via delle Vette quando c’è nebbia, non si vede una beata minchia. Possibile che un sedativo interagendo col Fluoro 18 abbia creato queste ombre diffuse e spesse? I miei colleghi del quinto piano che diavolo hanno dato da mangiare e bere a sto cristiano ieri e l’altro ieri? Li voglio proprio chiamare. Totonno passami il telefono, voi intanto rifate la PET, me lo immaginavo che a ricoverare Briatore avremmo avuto rogne, nient’altro che rogne.”

Dopo quaranta minuti d’orologio la situazione che veniva fuori dalle innumerevoli immagini del tomografo era finalmente chiara ma sorprendente.

Briatore aveva il covid-20, l’evoluzione del covid-19, il virus era mutato ancora, non aveva più la forma di una corona ma di un fico d’India con venti spine in punta.

“Che ti dicevo Francè, ora sono cazzi. Chi glielo dice agli infettivologi? E alla stampa? Giusè tu che hai lavorato negli Stati Uniti hai mai visto una cosa del genere? Come lo descriviamo nel referto sto polmone che pare il sentiero dei fichi d’India di casa mia a Ragalna?  Mai una cosa semplice in questo reparto, mai. Vedrete, vedrete, quell’Amanita Muscaria della Santanché troverà il modo di crearci problemi col Direttore Generale, il quale stronzo come è, farà di tutto per chiuderci il reparto e potenziare quello di Cirillo.”

I due medici, mentre il primario parlava, non riuscivano a staccare gli occhi dalle immagini. Erano molto concentrati. Francesco aveva iniziato a pettinarsi la barba che non aveva e Giuseppe continuava ad avvicinarsi le lenti sul naso come faceva quando doveva decidere se parlare o tacere.

“Beh avete fatto il voto del silenzio?” sbottò il Dottor Caprasecca. “Sembrate addormentati come il paziente. Che state spiando?” 

“Salvatò lascia stare i polmoni, dai un’occhiata al basso addome, guarda il retto e l’ano…non noti nulla di strano? Abbiamo a che fare col ratto della prostata di Briatore. Costui non ha la prostata e al suo posto c’è una foglia d’oro!”

A Soverato intanto alla stessa ora in cui i tre medici riflettono su cosa dire e non dire alla stampa, Elisabetta Gregoraci è a casa dei genitori. Ogni tanto scende a trovarli. La madre sta preparando la marmellata di more che alla figliola piace tanto e sta trafficando nel suo stanzino laboratorio con una sporta di boccacci quando d’un tratto la gatta Dorabella ne fa cadere uno. Il boccaccio di vetro, pieno fino all’orlo di formaldeide e contenente un cosino di tessuto dalla forma di una castagna, cade a terra rompendosi in minuscoli pezzi, il liquido fuoriesce, la castagna rotola accanto a un pomodoro, sotto l’occhietto vigile della gatta in agguato, mentre l’anziana donna incuriosita si china per vedere di che si tratta. Questo boccaccio non lo aveva mai visto lì nella dispensa.

“Mà, mà…chi succedìu ca?”

“Betta catta su boccacciu.”

“Focu meu, chida esta a prostata e Flavio!”

Aurora Luzzi

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