L’avaro

Benedetto Facebook, si diceva Fiorina sul Frecciargento per Salerno, dove finalmente avrebbe incontrato il suo Ernesto dopo mesi di chat, videochiamate e baci virtuali.

Chi se lo immaginava che avrebbe trovato l’amore su questa diavoleria moderna?

E pensare che quando la migliore amica Antonella glielo aveva suggerito, l’aveva aggredita come una furia, argomentando che non avrebbe mai conquistato un uomo su facebook.

E invece che sorpresa! Appena pubblicata la foto era stato tutto un like e l’inizio del corteggiamento da parte di Ernesto. Effettivamente era una bella foto, scattata sul lago di Cecita col vestito bianco scollato che valorizzava il seno quinta misura, mentre fissava l’altra sponda del lago al tramonto con un’espressione malinconica ma ammiccante, con la testa a tre quarti e un dito che sfiorava il labbro superiore. Venti minuti esatti di orologio per trovare la posizione giusta.

Per lei il romanticismo era questo, il ritratto di una donna che contemplava il tramonto, speranzosa che il porpora del sole morente fosse il presagio di qualcosa di bello per il giorno dopo.

Era quasi arrivata, perciò si specchiò per mettersi il rossetto e ravvivarsi i capelli.

Raccolse frettolosamente acqua libro e telefono e si infilò l’impermeabile, bistrattando nella foga una malcapitata signora che andava in direzione contraria.

E via verso l’amoruccio suo, che, stretto in una giacchetta lisa di panno l’aspettava sul binario stringendo in mano un mazzetto di violette. Bruttine. Forse il fioraio era chiuso, le aveva raccolte per i campi, un bel gesto per carità, ma si sarebbe aspettata un fascio di rose, visto che la chiamava sempre “rosellina mia”.

– Finalmente sei arrivata, il treno ha fatto sette minuti di ritardo, ora mi tocca pagare un altro euro per il parcheggio.

– Mi spiace Ernesto, mi spiace, eravamo in perfetto orario fino a Pompei, poi si è fermato ad un semaforo rosso e ha accumulato ritardo, ma non preoccuparti ché l’euro in più lo pago io.

– Ma no, no, non è necessario…fatti abbracciare, sono tanto felice di averti qui, non mi sembra vero, dammi la borsa e prendi le viole che si stanno sciupando.  

In realtà erano già sciupate.

Che inizio strambo.

Le aveva portato dei fiori che facevano pena, l’aveva rimproverata per sette minuti di ritardo neanche fosse stata lei a guidare il treno, e poi insomma erano sette minuti, mica tre ore, e nemmeno l’ombra di un complimento. Si era alzata alle quattro per farsi i boccoli con la piastra, aveva saltato la colazione per evitare la nausea in viaggio, per non parlare delle caviglie che le dolevano a causa dei tacchi alti minacciando vesciche che da lì a qualche ora le sarebbero scoppiate.

Dove era finito l’uomo traboccante di attenzioni e dolcezza conosciuto in chat? Com’era diverso questo Ernesto in carne ed ossa che procedeva come un cavallo al trotto, lasciandola indietro con la testa piena di pensieri e lo sguardo fisso al suolo.

Forse si era alzato storto, forse era solo la sua impressione, si diceva, mentre salirono in auto con labbra cucite lei e una ruga di malumore in mezzo alla fronte lui.

Appena entrati in garage Ernesto recuperò inaspettatamente le sue doti di gentiluomo e si affrettò ad aprirle la portiera prendendola per mano.

Che garbato, era proprio garbato, si diceva fra sé facendo rifiorire nel cuore il buon umore.

Tanto garbato che prima di entrare in casa le ordinò di rimettere a posto lo zerbino verde che si era spostato e di conseguenza non era più allineato alla forma rettangolare del marmo del davanzale, nonché di infilarsi le pattine per non sporcare il pavimento.

Ma a Fiorina quest’ultimo gesto sembrò una fortunosa coincidenza perché poté liberarsi dei tacchi e avere un po’ di sollievo.

La casa era molto carina, arredata con gusto. Pareti rosa salmone, divani in pelle marrone e mobili antichi, ereditati, si prodigò a raccontarle, dalla madre, preside al liceo Tasso. Una nobile che aveva accumulato una bella fortuna, peccato che poi l’avesse persa, assieme alla reputazione della rispettabilissima famiglia De Luca, al tavolo da poker. Gli aveva lasciato solo i mobili, per fortuna di valore, le andava ripetendo mentre calava la pasta spiegandole la ricetta.

-Fiorina ti ho preparato uno dei piatti tipici della cucina salernitana, i paccheri allo scarpariello, ché devi sapere qui a Salerno li facciamo col sugo di salsiccia mentre in altre città solo con pomodorini, pecorino, e basilico fresco. Te li ho cucinati con la salsiccia così sono più gustosi e saporiti.

Effettivamente erano saporiti ma il suo palato incontrò una, una sola briciola di salsiccia. Si aspettava che l’avesse tenuta da parte per secondo.

Macché, per secondo tirò fuori dal frigo pomodoro e mozzarella.

Quando allungò la mano sulla bottiglia dell’olio, le comunicò che era già condita.  Forse a lui piaceva così, con una lacrima d’olio e tanto basilico.

-Mi piace un po’ più condita, replicò lei, versando altro olio sulla mozzarella.

-Sii parsimoniosa, questo è olio buono, l’ho pagato un sacco di soldi a Renzo, il mio collega che ha l’uliveto nel Cilento.

Iniziò a venirle il sospetto che fosse tirchio, fiori di campo, dieci grammi di salsiccia a testa, poco olio. Solo col basilico era stato generoso.

Finito di pranzare, le propose di andare a visitare la reggia di Caserta.

Fiorina ne fu entusiasta perché non l’aveva mai vista se non in tv, e poi adorava i giardini con i ruscelli, le fontane, i tempietti, gli alberi secolari. Chissà quante belle foto avrebbe potuto fare di loro due assieme per la prima volta, da riguardare in futuro rievocando la felicità di quel giorno, quella felicità assoluta, intensa, ineguagliabile della prima volta.

Perciò si rimisero in auto alla volta di Caserta.

Ernesto per non pagare il ticket lasciò l’auto in una traversa in capo al mondo, in prossimità del parcheggio auto, perciò quando arrivarono alla biglietteria lei era così stanca che dovette sedersi un buon quarto d’ora per riprendersi, mentre lui andò a fare la fila per i biglietti.

Le bastò la breve sosta per recuperare le energie e andare incontro ad Ernesto che agitava in mano un solo biglietto.

– Che cosa succede? Hanno finito i biglietti?

– No, no, ma la Reggia l’ho vista tante volte, perché devi sapere che ogni volta che viene a trovarmi un amico o un parente lo porto a qui, oramai la conosco a memoria, potrei descriverti ogni appartamento, il Teatro, lo Scalone d’onore. L’ho fatto solo per te il biglietto, vai che nel frattempo mi faccio due passi qua attorno, poi quando finite di visitare il parco fammi uno squillo, così per non farti fare la strada fino alla macchina ti vengo a riprendere vicino al parcheggio. Vai vai Fiorina che sta per iniziare la visita guidata, voglio che tu la veda perché è proprio bella, unica al mondo, altro che Versailles, bella come la Reggia di Caserta c’è solo la Reggia di Caserta. A dirti la verità ce la potevamo guardare sul computer tranquilli a casa, vicini vicini e avremmo risparmiato i soldi della benzina e del biglietto, ma ti voglio troppo bene e la devi vedere, quindi i 14 euro sono stati spesi bene.

La donna stupita e immalinconita si avviò, raggiungendo il crocchio di persone attorno alla guida, consapevole oramai che Ernesto era un taccagno, perfino più taccagno di sua nonna, che senza averne necessità divideva un petto di pollo fra sei persone.

La visita le piacque tanto. La guida, più brava di Alberto Angela, l’aveva affascinata con tutte quelle informazioni, quei particolari sui mobili, le porcellane, le pareti rivestite con la seta di San Leucio, il tavolo con le pietre dure. Davanti al lampadario con i pomodori si era incantata, non aveva mai visto niente di più bello e raffinato. Quel tripudio di rami e foglie intrecciati, quei grappoli di pomodori dorati erano una meraviglia. Chissà se l’artista che lo aveva realizzato era andato a osservare i pomodori nell’orto prima di mettersi all’opera, si chiedeva, o avendo tutto chiaro in testa, aveva eseguito il lavoro senza mai allontanarsi dal laboratorio. E quante risate si era fatta quando Diletta, così si chiamava la guida, aveva narrato la storia del bidet della regina Maria Carolina definito “quello strano oggetto a forma di chitarra”.  

La visita era finita e doveva chiamare Ernesto. Ma non lo desiderava minimamente anzi avvertì un sentimento di malinconia. Che cosa le stava succedendo?  Dopo quella pioggia di bellezza della Reggia la figura di Ernesto appariva ancora più scialba. Si avviò lentamente verso l’uscita, sbagliando la direzione, tanto era confusa. Invece di andare verso il parcheggio auto si incamminò come una sonnambula verso quello degli autobus.

Che uomo triste, diceva a sé stessa, un uomo che viveva minuto per minuto col solo pensiero di risparmiare.

E poi fisicamente non gli piaceva nemmeno tanto. Aveva un nonsoché di inesprimibilmente vecchio, i vestiti emanavano lo stesso odore delle galline bagnate, conservava i libri immacolati dentro la carta velina, come si faceva in quinta elementare.

Avaro, noioso, un uomo spegni allegria, come diceva la zia Vicenzina riferendosi al marito, che alle otto di sera andava a dormire e le spegneva la tv e la luce.

Inutile girarci attorno, s’era ingannata su Ernesto. Dannata sete d’amore che fa vedere quello che il cuore vuole, dannato facebook, dannata vita virtuale che per un momento le era sembrata perfino più dolce della vita vera. E ora che poteva fare?  Solo un piccolo miracolo poteva levarla da questa situazione imbarazzante in cui si era cacciata da sola.

Inciampò contro qualcosa, una lattina. Si scosse, tornò presente a sé stessa quando vide a pochi metri da lei un autobus della ditta Zanfini tours di Acri, del suo paese. Riconobbe il dottor Julia e sua moglie Franca, la macellaia, il barbiere Franchino, e nientedimeno che il famoso conduttore di Radio Acheruntia, Franco Bifano, assieme a Margherita.

Corse verso l’autista che conosceva bene e stava facendo l’appello, chiedendo se tornassero ad Acri o andavano altrove.

Certo Fiorì stiamo tornando dal pellegrinaggio alla Certosa di Padula, e poiché era presto, abbiamo visitato anche la Reggia, ma che fai qui da sola?

– No, non ero sola, ho avuto un contrattempo e ho perso il treno.

L’autista, dall’agitazione della donna intuì che si trattava d’altro, ma senza fare domande urlò al secondo autista in fondo all’autobus.

-Alfrèèèèè, ci sta un posto libero là per questa paesana?

-Sì c’è. C’è posto accanto a don Salvatore.

-Allora sali che partiamo.

Aurora Luzzi

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