Morire per un parcheggio, storia di figli persi…

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L’assurda morte di un musicista a Napoli, reo di aver chiesto a un sedicenne di spostare la moto, denota drammaticamente che abbiamo toccato il punto più basso e al tempo stesso che la violenza, in alcuni ambiti, diventa un connotato sociale, quasi un elemento identitario. Alla richiesta di spostare il mezzo, non è seguito un diverbio, semplicemente il ragazzino ha tirato fuori l’arma e ha sparato con una facilità impressionante. L’episodio, già terribile in sé, ci impone di interrogarci sui nostri figli, su quali siano gli elementi e i valori sui quali Imperniano le loro fragili vite. Non staremo a dilungarci sull’ambiente familiare del ragazzo, ma è indubbio che questo condiziona fortemente la crescita e il modo di stare al mondo.

Tuttavia, non vorremmo nemmeno cadere nella retorica di una facile sociologia che ci porti a giustificare ogni atto con l’ambiente di provenienza, con risultato assai spesso di ridimensionare colpe e responsabilità. Riteniamo più che mai che episodi del genere non debbano passare sotto la scure derubricante né della immaturità dell’età, tantomeno della ineluttabilità di un ambiente condizionante. Se è vero che questa spia ci deve indurre ad una maggiore presenza della scuola, dei servizi, in definitiva dello Stato in alcuni ambienti, è anche vero che finire per giustificare e perdonare ogni gesto, sia di per sé stesso diseducativo.

La presenza dello Stato in questo caso deve estrinsecarsi anche sotto l’aspetto penale, perché se ci si ritiene grandi ed adulti al punto da maneggiare con facilità e sicurezza uno strumento di morte, non si può essere indulgenti verso alcuni eventi come quello citato, perché sappiamo benissimo che questo tipo di messaggio verrebbe scarsamente recepito in ambienti nei quali gli unici rapporti che valgono sono quelli di forza. È giunto il momento che lo Stato dimostri non solo la sua presenza in termini educativi ma riteniamo anche in termini repressivi. Se essere figli di camorristi, implica di per sé l’inosservanza dei principi elementari del diritto, non si può, con un atteggiamento indulgente, far passare il messaggio che siccome la violenza è parte integrante di alcuni ambienti, bisogna quasi accettarla come ineluttabile.

Nelle cronache di questi giorni c’è qualcosa di più e di più grave della pura e semplice educazione alla violenza, cioè l’uso stesso della violenza gratuita come strumento di divertimento. Un gruppo di giovani, di buona famiglia, che si diverte, filmandolo, a uccidere a calci una capretta, fa capire quanto poco valga la vita e il rispetto degli altri. Gli episodi di Caviano, poi, sono un ulteriore evidenza della bestialità esercitata come sport di gruppo e ostentata sui social.

Di fronte a tutto questo, ripetiamo e riteniamo, la risposta dello Stato non può essere solo di comprensione del disagio, diversamente il messaggio che passerebbe nella mente di chi conosce solo la forza come mezzo di confronto, sarebbe una liceità assoluta in virtù di uno Stato assente e permissivo. Questo non vuol dire, che l’aspetto rieducativo e di reinserimento debba essere trascurato. Non si può nemmeno, però, essere inermi di fronte ad eventi estremi, frutto essi stessi dell’assenza per lungo tempo, in certi ambienti, uno Stato forte e identitario.

Massimo Conocchia

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