Felicità blu
Fabio fischiettava un motivo dei Pink Floyd lungo il sentiero. Era felice. Felice come quando da bambino nonna Serafina lo portava in campagna a raccogliere le ciliegie. Tonde, rosse, lucide. Sensuali. Le prime donne della sua vita.
Da anni i suoi amici gli avevano parlato degli alberi monumentali ai piedi dell’imponente massiccio roccioso del Lupo, che si specchiavano nelle acque del lago con una bellezza talmente straordinaria da dovere essere assolutamente vista e fotografata. Lo avevano invitato più volte ad andarci assieme alla domenica con il gruppo Cai di Reggio Emilia, ma aveva declinato l’invito inventando altri mille impegni. In realtà voleva andarci da solo, perché in fondo in fondo era un orso marsicano e tutte le cose importanti della sua vita amava farle têtê-a-têtê con Fabio. Del resto soltanto in solitudine riusciva a percepirsi in comunione con la natura e a catturare in essa un nonsoché di spirituale, necessario per superare il disordine e la mischia della vita di tutti i giorni. Senza contare la sua insofferenza alle spiritosaggini circolanti in tutti i gruppi di trekking, soprattutto in quelli modaioli della domenica. Alla fine si sarebbe trovato in cima con qualche crucco che lo avrebbe tempestato di domande, invece di godersi il paesaggio e l’aria sopraffina, a meno che non fosse appestata dall’immancabile uovo sodo, sbucciato da qualcuno sotto al suo naso. Per carità, lo tacciassero pure di essere un poseur pieno di sé.
Il silenzio della montagna che lo scrutava con i suoi occhi verdi gli rasserenava i pensieri e addolciva il passo. Pensava alla cena della sera precedente con i colleghi dell’officina, in quel budello di ristorante vicino al ponte romano. Il locale non era granché ma il cibo una vera delizia, ben nove portate e vino buono come non ne beveva da un po’. Ne aveva comprato una scatola, rosso fermo, come piaceva anche ad Anna, che all’ultimo minuto aveva deciso di non andare. Queste cene fra colleghi proprio non le tollerava, perciò quando era rientrato lo aveva accolto con un broncio dissenziente senza misura. Ecco, la sua compagna era senza misura, incapace di dare il giusto peso a ogni situazione e in particolare ai sentimenti. Piangeva a dirotto per il gattino del vicino, morto annegato nel canale, trasformava una banale emicrania in un tumore al cervello inoperabile, e almeno una volta al giorno narrava un qualche episodio che si evolveva in una tragedia greca o quantomeno in un caso gravissimo. Issimo ecco un altro difetto di Anna, infiorava il discorso sempre con disgraziato issimo, dolcissimo, bellissimo, intrigantissimo, interessantissimo.
Però, quando al mattino dai battenti malchiusi il sole scoccava sul letto ferendo i fianchi di miele scuro della donna, lui si sentiva felice. Dannatamente felice, e pregava San Prospero affinché continuasse a farlo perdere al gioco tutta la vita piuttosto che perdere l’amore di Anna.
Quindi l’issimo glielo perdonava.
Era un uomo fortunato, si diceva sorridendo, quando improvvisamente un crampo lo fece arrestare sul sentiero pieno di violette e anemoni. Un dolore non ancora sopito alla caviglia sinistra per quel vecchio incidente in moto gli tracciò una smorfia sul viso, imperlato di sudore. Meno male che era arrivato. Dopo una scarpinata così lunga e faticosa non aveva più energie da spendere.
Dio che spettacolo!
Davanti a lui un universo d’acqua blu danzava sotto una sberla di tramontana. Gli alberi dai cento anni si riflettevano nell’acqua azzurra e addormentata come spettri d’argento, incerti nei movimenti. Incerti come il ritardo di un treno, come il tempo di attesa negli ospedali, come la durata di un amore. Fabio spense il cellulare che reclamava risposte, avvertì per l’intensità dell’emozione un senso di vertigini e extrasistole, perciò si sedette su un ciuffo di erba umida. Appoggiò le mani sotto il mento pensando ad Anna che stava mangiando i cappelletti fatti dalla Gina, a sua mamma che preparava le pappe per i gatti, e a suo padre che non gli aveva mai fatto una carezza in tutta la vita, obbligandolo a leggere la Gerusalemme Liberata a dodici anni. Che merda d’uomo! E non lo aveva mai portato in questo luogo. Colpevole anche di questo. Gli alberi continuavano a fluttuare davanti a lui tubando pigolando e trillando. Un trillo che arrivava fin dentro l’anima e curava ogni malinconia. Desiderò che quel momento di felicità non passasse presto e che nessuno arrivasse ad interromperlo.
“Peccato per Anna! Avrei potuto portarla”, si disse, mentre tirava fuori la Canon per immortalare tutto quel blu.
Aurora Luzzi