‘U cucumilu’, pianta medicamentosa di Calabria, in una memoria di Michele Tenore

Agli inizi del sec. XIX, per l’embargo imposto dall’Inghilterra ai domini napoleonici, vennero a mancare le piante medicinali esotiche. I naturalisti del Regno di Napoli furono invitati a ricercare e segnalarne i sostituti. La detta mancanza si avvertì particolarmente negli ospedali militari. Il naturalista M. Tenore, nel 1808, scrisse, perciò, il Saggio sulle piante medicinali della Flora Napoletana e sul modo di surrogarle alle droghe esotiche.

L’invasione delle Calabrie (1806), dove la malaria mieteva vittime nell’armata francese, pose in primo piano il preoccupante problema. Tenore, nell’adunanza (15 dicembre 1827) del Regio Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli, lesse la Memoria sul pruno cucumiglia di Calabria, sottolineando: “fu scoperto che i calabresi si guarivano dalle febbri intermittenti, facendo uso della scorza di un albero chiamato Cucumiglia”. L’albero altro non è se non il cucumìlu, pianta selvatica, che vegeta in Sila e fruttifica come i meli.

Se ne sperimentò l’uso negli ospedali. Il “primo medico dell’esercito”, cav. Savarese, lo segnalò al Tenore, che ricercò sui poteri medicinali, coadiuvato dal Thomas, ispettore delle foreste e “corrispondente pensionato” del Reale Orto Botanico delle Calabrie.

“Non fu difficile allora – scrive Tenore – riportarlo al suo vero genere, che trovai essere il Prunus, ma in quanto alla specie, dopo averla inutilmente ricercata tra gli autori che potei consultare, concepii il sospetto che potesse non essere ancora definita”. Segnalè il ritrovamento nel 2° supplemento al Prodromo della Flora Napolitana.

Riprodusse piantine nell’Orto Botanico, seminandone noccioli. Battezzò la specie Prunus Cucumilia. Ne fece la descrizione e fece eseguirne disegni. Ha la soddisfazione di vedere l’interesse dei naturalisti fra i quali Sprengel e de Condolle.

Ma, quali erano le componenti chimiche, che ne facevano una pianta medicinale? Tenore ci fa sapere che non se la sentiva di sacrificare qualche piantina e, un suo allievo, Domenico Polizzi, gli inviò, nel marzo 1826, “da Mesoraca nella Calabria Ulteriore” un pacchetto di scorze, radici e rami del cocumìglia. Gli comunicava, inoltre, d’averne sperimentata l’efficacia curativa in detta provincia per otto anni.

Tenore si rivolge al chimico Giovanni Semmola, per l’analisi delle cortecce. Questo è il risultato: “Concino alcoolico 0,16acquoso  0,08; Materia colorante rosso-gialliccia in quantità indeterminata. Principio legnoso 0,70”1.

Presenta la pianta al Consesso suddetto, sottolineando che è bene introdurla nella farmacopea: “Trattandosi di un rimedio sperimentato efficacissimo nelle intermittenti esquisite, che sogliono specialmente attaccare le persone, che trovansi sotto l’influenza dell’aria malsana, di cui disgraziatamente abbondano le spiagge del nostro Regno; e siccome la più numerosa classe da queste malattie bersagliata si compone di poveri contadini, cui mancano i mezzi da comprare droghe dispendiose”. E perché, continua, il consesso: “potrà giudicare se per bene dell’umanità, e per corrispondere eziandio alle brame de’ dotti medici oltremontani, convenga divolgarne ed estenderne l’uso per mezzo della pubblicazione de’ suoi lavori accademici”.

La relazione fu pubblicata2. Del “luogo natale, epoche della vegetazione” ecc.: “Quest’albero nasce sui monti della Calabria in tutta l’estensione di quella penisola, a vista del mare nell’esposizioni meridionali, occidentali ed orientale, all’altezza di circa 3000 piedi”; che abbonda “principalmente nelle Sile, ne’ monti che coronano Monteleone, Staiti, Cotrone, Mesoraca ec. (…) Apre le sue gemme de’ fiori in Aprile, e matura i frutti in Settembre”.

La corteccia era usata, come già detto, in sostituzione di quella di china, scarseggiante, per i motivi accennati. Riguardo al nome, precisa: “nelle Calabrie quest’albero porta il nome Cocumiglia o Cucumile3” e in alcuni luoghi del Cosentino, non dice quali, è indicato “anche col nome di Agromo o Gromo”.

Il dott. Polizzi gli assicurava che la scoperta dei poteri antifebbrili della corteccia erano dovuti “ad un nobile cittadino di Monteleone4, che 50 anni fa5 vestì l’abito religioso in uno de’ conventi di Mesoraca, e che a proprie spese ne faceva ogni anno raccogliere sui monti una gran copia, e ne preparava l’estratto che distribuiva ai poveri, tormentati dalle febbri intermittenti”.

Mèrat, nel Dictionner des sciences médique, tom. XLVI, dopo aver riportato le qualità febbrifughe della pianta scrive: “Il y a en Calabre une espèce qu’on appelle P. cucumilia Tenore, qu’on regarde comme un puissanta fèbrifuge” (Vi è in Calabria una specie che si chiama Prunus cucumilia Tenore che si ritiene potente febbrifugo).

Tenore fa rilevare, riguardo al nome dialettale, che è d’origine greca: “Troviamo infatti in Teofrasto al libro I. cap. 18 della storia delle piante descritto il pruno comune sotto il nome di kokumilon, identico affatto a quello di Cocumiglia che i calabresi adoperano per designare questa specie di pruno, che col comune ha molta somiglianza”.

Giuseppe Abbruzzo

1 L’analisi fu pubblicata nel II vol. dell’Esculapio, p. 11. = 2 Atti accademici, vol. IV, 1828. = 3 Così è detto nel dialetto acritano, ma con l’uscita in u. = 4 Attuale Vibo Valentia. = 5 Dato che la relazione fu tenuta nel 1827, il citato signore si monacò nel 1777.

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