Giulietta e Romeo, come Tisbe e Piramo

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“Non s’inventa nulla di sana pianta”, ci diceva Mario Monicelli, “Ognuno prende sempre qualcosa da altri”.

Gli dissi che ero d’accordissimo.

La storia di Giulietta e Romeo, riportai ad esempio, attribuita a William Shakespeare è, in realtà, nella mitologia. Ricorda, infatti, la fine di Tisbe e Piramo.

Al drammaturgo inglese va, senz’altro, il merito d’averla resa famosa, inventando i personaggi più vicini ai suoi giorni, inseriti nella vicenda delle faide di quei tempi fra famiglie altolocate che si contendevano il potere.

I veronesi Capuleti e i Montecchi erano fra i suddetti. La trasposizione operata non solo divenne famosa, ma fece le fortune di Verona, dove i turisti vanno a vedere il balcone dal quale si affacciava Giulietta.

Tutto questo è un bene, ma va detto che tutta è un’invenzione.

Veniamo alla Mitologia.

Va detto che esistono due specie di mori: uno bianco, l’altro rosso.

Ecco come si ebbe quest’ultimo, secondo gli antichi: Tisbe era la giovane più bella d’Oriente e Piramo, suo innamorato, era il più bello e gentile fra i giovani.

Le loro abitazioni erano vicine, in Babilonia.

Come fa rilevare il nostro popolo: se la stoppa sta vicino alla fiamma prende fuoco. Così i due s’innamorarono perdutamente.

I loro genitori, però, erano in fiero contrasto e proibivano loro di vedersi e, soprattutto, di frequentarsi.

I due, innamorati perdutamente, decisero di vedersi in gran segreto, presso il sepolcro di Nino, nel posto dove si trovava un moro bianco.

Va detto che Nino, re assiro, era marito di Semiramide. Si dice che la moglie ne sia stata l’uxoricida. Lei, però, fece erigere un mausoleo in Babilonia, come riporta Diodoro Siculo.

La storia dei due giovani amanti è riportata da Ovidio, nelle Metamorfosi.

Era una sera di luna piena. Tisbe, coperta d’un velo bianco arrivò per prima nel luogo convenuto. Al chiarore del satellite vide una leonessa con la bocca insanguinata. Temeva che l’amato Piramo fosse stato scoperto, come suo innamorato, e ucciso.

A quella vista fuggì. Le cadde il velo. La leonessa lo trovò e lo lacerò, lasciandovi tracce del sangue, del quale aveva intrisa la bocca.

Giunto, poco dopo, Piramo e trovato il velo di Tisbe insanguinato, pensò che fosse stata divorata da qualche fiera. Addolorato si trafisse il petto con la spada.

Era ancora vivo quando Tisbe uscì dal nascondiglio, dove si era nascosta.

Voleva raccontare al suo innamorato la disavventura alla quale era scampata.

La misera non credeva che Piramo si fosse ucciso. Pensò che fosse stato vittima d’un agguato della sua famiglia.

Disperata, chiamò invano l’innamorato. Visto che Piramo era morto si trafisse con quella stessa spada, candendo sul corpo dell’amato moribondo.

Il gelso, del quale si è detto, rimase tinto del sangue degli innamorati. Le sue frutta mutarono colore e da bianche divennero rosso scuro.

È proprio vero: nihil sub sole novum! (Niente di nuovo sotto il sole!). Spesso ci si ispira a qualcosa di precedente.

La mitologia è, d’altra parte, fonte interessante sotto questo aspetto.

Giuseppe Abbruzzo

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