La lezione del signor G
Un pomeriggio domenicale di oltre trent’anni fa eravamo di turno festivo di guardia medica. Assorti nelle lettura del “Pendolo di Foucault” di U. Eco, sentiamo squillare il telefono con una richiesta di visita domiciliare. Segniamo l’indirizzo e ci rechiamo presso l’abitazione dell’interessato. Una villetta immersa nel verde della campagna toscana, con un giardino ben curato. Ci apre un signore poco più che settantenne, ci accoglie con garbo e premura; ci invita a sederci. Ci apprestiamo a chiedergli il motivo della chiamata e quali fossero i disturbi che lo avevano indotto a contattarci. Capiamo immediatamente che non si trattava di un male fisico; non ci appariva per nulla sofferente. “L’ho chiamata perché avevo bisogno di parlare con qualcuno. La solitudine, quando non è cercata, è terribile, un vortice che ci avviluppa e ci porta via.”.
Era rimasto solo in quella casa enorme da un anno e, specie la sera, quando passava davanti a una foto di una donna e, sorridendole come sempre, non si vedeva ricambiato il suo sorriso, tutto appariva tetro e il senso stesso delle vita veniva fortemente messo in discussione. Aveva dei figli che vivevano all’estero, non li vedeva mai; evitava di chiamarli spesso per evitare di trasmettere loro il suo malessere e divenire, quindi, fonte di preoccupazione. Aveva provato con un antidepressivo ma, a fronte di un lieve miglioramento del tono dell’umore, gli aveva indotto un notevole abbassamento dei freni inibitori spingendolo a gesti estremi, per cui aveva deciso di interrompere il trattamento. Da allora non aveva più impulsi anticonservativi ma l’umore era ritornato sotto i piedi.
Da qui la tentazione di chiamare il medico. In passato aveva provato con i carabinieri e vari servizi di pubblica utilità. Stavolta era toccato a noi. Osservavamo quella casa, intrisa di ricordi di una vita vissuta in piena e armoniosa condivisione e che ora, paradossalmente era lì a pesargli enormemente. “Ricordarsi del tempo felice nella miseria” gli provocava un dolore urente, che non era più sicuro di potere sopportare.
Da qui la necessità di condividere la sua solitudine e il suo stato con chiunque fosse nella condizione di ascoltarlo. Parlava di viaggi, di ogni momento della sua vita e ogni cosa vissuta non da solo gli appariva come un regalo meraviglioso che gli rendeva l’esistenza piacevole. “Adesso non c’è più sugo; nulla ha sapore. Mi trascino nell’attesa di un evento che tarda ad arrivare e ogni giorno mi appare come un obolo da pagare alla sorte, un po’ per quanto mi ha concesso in passato, un po’ per la conquista della pace. Tuttavia non recrimino. Ho avuto una vita felice”. Ascoltare quell’uomo era come ripassare una sintesi esistenziale e, al tempo stesso, assistere a una lezione frontale su come affrontare l’esistenza stessa, senza supporti né surrogati. Semplicemente, quell’uomo cercava un appiglio per meglio affrontare una quotidianità vissuta come una condanna, perché priva di quei supporti che la rendono accettabile e perfino amabile.
Non voleva filtri che la facessero apparire diversa da quella che era, cercava solo un minimo di condivisione che rendesse meno penosa la sua solitudine. Mentre lo incitavamo a parlare del suo passato, di ogni aspetto della sua esistenza passata, dal matrimonio, al lavoro, ai figli con i vari aneddoti di quando erano bambini, ci rendevamo conto di quanto apparisse nettamente più reattivo rispetto al nostro arrivo e di quanto quella chiacchierata gli avesse fatto bene.
Da quel giorno, tutte le volte che potevamo, di rientro da una visita, ci fermavamo per un saluto. Smise di chiamarci; sapeva che quando potevamo saremmo passati. E così fu per circa un anno. Poi ci trasferimmo altrove ma preferimmo non passare a salutarlo; temevamo che quella notizia lo avrebbe destabilizzato. Scegliemmo la via per noi più comoda.
Non sapemmo più nulla. La lezione di quell’uomo ci riecheggia nella mente, mentre cerchiamo un senso a un percorso che, assai spesso, “un senso non ce l’ha”. Sicuramente, il sig.r G. aveva affrontato la sua solitudine in una maniera dignitosa e coraggiosa, cercando nella condivisione e nella parola la chiave per guadagnarsi un’uscita di scena non traumatica. Se è vero che “la morte si sconta vivendo” è altrettanto certo che ci siano varie e molteplici modalità di espiazione. Sicuramente, quella del sig. G. è una via che ci sentiamo di additare come uno dei modelli.
Massimo Conocchia