Un austero e bravo Maestro elementare…
In tempi recenti riaffiorano alla nostra mentre, con incredibile frequenza, una serie infinita di ricordi d’infanzia, complice, probabilmente, la canizie incalzante che ci porta, per contrappasso, a pensare alla stagione più spensierata del nostro percorso esistenziale. Andando avanti, gli anni aumentano, divenendo numerosi, mentre noi restiamo sempre una singola unità: non possono, pertanto, che averla vinta loro, imponendoci eventi e momenti a loro piacimento. Fra i vari ricordi d’infanzia, ci piace ricordare il nostro Maestro di IV e V elementare, frequentata in un edificio che era di fatto nato come civile abitazione, nelle adiacenze della Chiesa dell’Annunziata e, contro ogni criterio di sicurezza, adattato a scuola. La nostra classe era al primo piano. L’insegnante era una persona per bene e preparata, si chiamava Bruno De Vincenti, persona austera, poco incline alle chiacchiere; quando sorrideva, lo faceva quasi accennando un’esile tensione della rima buccale, sotto i baffetti. Molto preparato, esigeva da tutti un comportamento corretto. Quando si assentava per andare in Direzione, ci raccomandava di stare in silenzio; al suo ritorno ci avrebbe concesso un po’ di ricreazione. Una volta una sua collega aprì la porta della nostra classe, incredula di tanto silenzio, sapendo tra l’altro che il Maestro era assente. Sbalordita, chiamò gli altri insegnanti, non capacitandosi di un simile comportamento (nelle altre classi era abitualmente la rivoluzione quando si assentava l’insegnante). Fra i vari “supporti” didattici, c’era indubbiamente la bacchetta (cosiddetta “zia Rosa”), fedele compagna di ogni educatore in epoca antecedente ai nuovi programma del 1985, dove imperava una concezione autoritaria dell’educazione. Lui, però, non ne abusava; la teneva lì a mo’ di monito e come dissuasore. Fra i vari meriti di questo insegnante non comune, c’era quello di infondere negli alunni un senso civico e un rispetto per gli altri. In questo era sicuramente avanti rispetto a molti dei suoi contemporanei. Quelle lezioni ci riecheggiano, oggi, con estrema vivacità e tenerezza. Una mattina, in quinta, arrivò e ci fece aprire i quaderni a righe di “bella”, per dettarci una poesia, della quale, prima che la imparassimo a memoria, ha voluto spiegarci il significato. Ignoriamo il titolo e l’autore, ricordiamo le strofe, che riproporremo per far capire il senso di ciò che voleva trasmettere, che era, essenzialmente, l’abitudine al rispetto degli altri e l’amore per gli animali. “ Un piccione di un’antica cittadina sopra i merli se ne stava appollaiato, quando, stanco, al maniero si avvicina un compagno che era mezzo spennacchiato. “Che t’è successo? Che t’è capitato?” “Che strage caro amico, che disdetta! Facevano la gara del piccione e a chi di tutti andava meno male, davano un coppa, un medaglione e con la foto messa sul giornale. Fortuna che ci c’era alla doppietta, puntandomi due volte mi ha mancato! ” “ Ma quanto è strano l’uomo, diavolone, riprese intanto l’altro rattristato: qui chi ci tocca quasi va in prigione, lì chi ne uccide viene premiato”. Tra la sua spiegazione e l’immediatezza dei versi, ci riuscì di memorizzare facilmente questa poesia e, a distanza di oltre mezzo secolo, ci è rimasta ancora impressa come perenne monito sia delle “follie e incoerenze” umane sia del messaggio profondo che la composizione recava, ossia la necessità di rispettare gli altri indipendentemente dalla latitudine o dalla loro provenienza. Questo messaggio, in un’epoca nella quale questi concetti erano sicuramente poco radicati, fa di questa bella figura di uomo e di educatore un esemplare da additare come esempio per le sue rare doti e la sua capacità di trasmettere messaggi in grado di formare futuri uomini, piuttosto che nozioni mnemoniche ed astratte. Valga il presente quale tardivo tributo e perenne riconoscenza.
Massimo Conocchia