I maggio: celebrare il lavoro come strumento di dignità della persona

Il I maggio, come il XXV aprile, rischia di divenire una festa di parte, divisiva in un periodo nel quale vecchi retaggi ideologici sembrano da più parti riaffiorare, col rischio di una contrapposizione non solo anacronistica ma dannosa. Celebrare la liberazione da una dittatura, piuttosto che il lavoro, ricordando chi, per il recupero di condizioni più umane, ha dato la vita, non può e non deve essere strumento di contrapposizione. Sui principi e sui diritti fondamentali non ci si può distinguere. San Giovanni, ben lungi dall’essere la piazza di una fazione, deve essere il luogo dove celebrare – e al tempo stesso rivendicare – il lavoro come diritto fondamentale e contestualmente lottare perché questo diritto sia garantito in ogni parte del Paese. Oggi non è così. Ci sono posti, come il Meridione, dove il lavoro difetta; quando presente, non infrequentemente, viene offerto come “privilegio” a condizioni al limite dell’accettabile, con stipendi da fame, che si è spesso costretti ad accettare per sopravvivere. Orari di lavoro prolungati, tutele e coperture limitate a fronte di retribuzioni umilianti. Il reddito di cittadinanza aveva permesso un minimo di recupero di dignità, che permetteva ad alcuni di rifiutare offerte vergognose e, per questo motivo, imprenditori grandi e piccoli si erano schierati in massa contro la misura. Un cameriere che per poche decine di euro doveva lavorare fino a tarda notte, poteva permettersi di rivendicare una giusta retribuzione; oggi, con la misura fortemente depotenziata e soffocata, si ritornerà alle vecchie offerte e alla “usuali” condizioni.  Il I maggio dovrebbe unire tutti nella pretesa di giuste retribuzioni e, contestualmente, nella rivendicazione di maggiori tutele e sicurezza nel lavoro. Nel III millennio si muore ancora di lavoro e le cronache quotidiane denunciano uno stillicidio costante di vite umane, spezzate per guadagnare un tozzo di pane.  Si muore, persino, di formazione al lavoro, con giovani vite portate via nel tentativo di apprendere come ci si approccia al lavoro. Diritto al lavoro deve coincidere con diritto alla tutela della propria integrità fisica. Diritto al lavoro e sicurezza nei luoghi di lavoro devono divenire sinonimi. Chi presta la sua opera al servizio degli altri non può e non deve rischiare la propria. E’ di questi giorni l’ultima, tremenda, notizia di una psichiatra massacrata da un paziente mentre usciva dall’ospedale. Come gesto estremo di disponibilità e amore verso un prossimo, la famiglia ha acconsentito alla donazione degli organi perché questa era la volontà dell’ennesima vittima della follia umana. I pronto soccorsi, le corsie, le sale operatorie stanno divenendo luoghi nei quali gli operatori non devono solo difendersi da continui e costanti attacchi “legittimi” ma da vere e proprie aggressioni fisiche, di fronte alle quali si è sempre meno tutelati e protetti. Questo clima e questi attacchi finiranno per rendere meno efficiente il sistema, traducendosi in un danno globale. Chi lavora per salvare la vita agli altri non può costantemente temere per la propria: le due cose finirebbero per cozzare.

Il I maggio deve divenire celebrazione di un lavoro dignitoso e sicuro per tutti.

Massimo Conocchia

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