L’Italia è nata così!
Penso che sarebbe oltremodo utile leggere gli atti parlamentari del nuovo Regno d’Italia, dal quale il popolo aspettava che si mettesse in atto quanto promesso.
Il nostro popolo, nella sua saggezza, dice: ‘Ntiemp’ ‘e guerra / buscii cumu terra, traduco per quanti non avessero dimestichezza col dialetto: in tempo di guerra si dicono tantissime bugie. Lo si fa, anche, in tempi di rivoluzione; lo si fa in campagna elettorale; ecc. ecc. ecc. La bugia, insomma, si usa quando fa comodo, soprattutto agli asini vestiti della pelle di leone. Aveva ragione da vendere, perciò, il grande Trilussa, quando scrive che, eletto l’asino, vestito di quella pelle e svelata al popolo votante la vera immagine, quegli si vestì d’autorità e gridò: – Silenzio! E salutate il Presidente -.
Torniamo al nostro assunto. Il 16 aprile 1861 si riunisce la Camera dei Deputati non per risolvere gli urgenti problemi, come si era promesso di farlo, gridandolo ai quattro cantoni, ma per stabilire se dovesse apporsi agli atti pubblici la denominazione Vittorio Emanuele II. – Secondo di chi? – Si chiedeva da più parti. Il Regno era nuovo e non vi era stato un Vittorio Emanuele I, nel regno d’Italia! E, ancora, se nell’intestazione degli atti governativi si dovesse mantenere, dopo il nome del re, “per grazia di Dio e volontà della nazione”.
Al popolo poco importava di tutto questo, voleva leggi immediate su quanto promesso. La realizzazione di quelle promesse, purtroppo, a distanza di quasi due secoli la stiamo ancora aspettando. Una fra tutte la questione del Sud, sventolata, ancora una volta, di recente.
Chi vuole, se ha la forza e la costanza, legga quegli atti, che sono d’una lunghezza estenuante.
Fra i tanti interventi c’è quello d’un deputato dissacratore, Petruccelli della Gattina, autore di un libro dal titolo “I moribondi di Palazzo Carignano” (era questa la sede della prima capitale del regno: Torino), per il quale fu costretto a scapparsene all’estero per evitare di fare “una mala fine”.
L’oratore interviene dopo tanti altri e dice, fra l’altro: “”non mi preoccupo del numero I: il numero d’ordine è un anacronismo (…) ed una minaccia” e lo spiega. Dato che gli oratori precedenti avevano fatto riferimento a Ferdinando IV di Borbone, che prese il numero di I, delle Due Sicilie, dice che il popolo motteggiatore, quando il re cambiò quel nome, “fece l’epigramma seguente:
Pria fu quarto, poi fu terzo,
finalmente ei fu primiero,
e, se dura questo scherzo,
finirà coll’esser zero.
Dunque, – concludeva -, non bisogna toccarli i re; lasciateli quali sono”.
Bisogna leggere le sue argomentazioni sulla formula “per grazia di Dio”, che non è un portato del cristianesimo come qualcuno sosteneva: “No, o signori, il Cristianesimo è una religione democratica, la quale tutto al più li ha subiti i Re, non li ha discussi. Date a Cesare quel che è di Cesare. La formula per la grazia di Dio è un trovato del papato. Sono stati i papi, i quali per consacrare un’usurpazione, e per istendere sull’orbe la loro influenza, l’alto loro dominio, hanno creato questo titolo”.
Le argomentazioni, le sottolineature, le giustificazioni sono minuziose. Gli interventi successivi sono lunghi pro e contro. Sono estenuanti per chi ha la forza di leggerli, immaginiamo quanti di “quei moribondi”, come definiti dal Petruccelli, si fossero gettati in braccio a Morfeo.
Proprio questo: l’Italia è nata così, è stata cullata e trastullata dalle e sulle parole.
Il popolo pensava e pensa che, chi delega a fare quanto si promette e s’aspetta discuta sì, ma realizzi. Ci viene sempre in mente una nota immagine del Goia, esimio pittore spagnolo, un ammalato attorniato da un gruppo di asini (i dottori), che si chiedono, come si legge nella didascalia: – Di che male morrà?-.
Ribadiamo: non sarebbe inutile leggere gli atti parlamentari, ammesso che se ne abbia la forza e la costanza, per capire che spesso si discuteva del sesso degli angeli e non del risolvere i problemi.
Le cose, a distanza di oltre un secolo, sono cambiate?
Giuseppe Abbruzzo