Fragili. Trattare con cura
C’è una cosa positiva che ha fatto la pandemia, ossia portare alla luce alcuni temi centrali per la cura e per il benessere soggettivo, soprattutto dei più fragili, dei più giovani. I media e il senso comune continuano a declamare, in modo noioso e controproducente, che i giovani oggi sono più fragili, forse sono solo più sensibili, più esposti al mondo. Da un lato c’è su di loro una pressione di attese e di incertezze e dall’altra li giudichiamo apatici e assenti. Si difendono dalle proiezioni che gli mettiamo addosso, loro vogliono solo essere quello che sono. Non penso sia una generazione più fragile o più problematica. Siamo noi adulti a osservarli troppo con i nostri parametri e le nostre aspettative e attese. Sono spesso figli di genitori tra i primi delle generazioni precedenti ad avere avuto la libertà di vivere secondo le loro scelte, sono figli della libertà sessuale, della libertà di genere, delle libertà civili, dell’istruzione di massa. I loro orizzonti sono più larghi, si pensano cittadini di un mondo più ampio della singola nazione. Sanno che il mondo è globale, che non ci sono protezioni totali e che spesso saranno senza rete. Non sono fragili, vanno trattati con occhi e lenti nuove, hanno bisogno di fiducia, soprattutto quando non corrispondono alle aspettative degli adulti di riferimento (genitori o insegnanti). Sono pieni di possibilità e sono immersi nelle incertezze e noi adulti non possiamo risolverle per loro. Siamo noi adulti che togliamo loro i sogni, gli stiamo togliendo il sogno di una società più inclusiva (che è quello che vorrebbe il 68% di loro).
L’8% degli studenti diplomati e laureati ogni anno lascia l’Italia. Quando questo diventerà una questione di attenzione della politica? Credo mai, soprattutto con questa politica. Formiamo nelle nostre scuole e nelle nostre università giovani che poi scelgono, per affrontare le incertezze, di pensarsi in mondi altri dove tutto è più possibile che in Italia.
Ma l’Italia è il paese delle contraddizioni e delle mille sfaccettature, dove le verità sono sempre molteplici e mai univoche. Una recente libro dal titolo “Voglia di restare”, un piccolo e prezioso testo pubblicato da Donzelli, uscito nel 2023 racconta un’altra storia. Da decenni le aree interne italiane sono coinvolte in intensi processi di spopolamento, di impoverimento dei servizi pubblici essenziali e di impoverimento produttivo. Si tratta di tendenze croniche e diffuse. Ma, come si afferma nel libro, nonostante il declino demografico, economico e di attenzione, le aree interne continuano ad essere luoghi vivi, dove quotidianamente si riproducono beni pubblici fondamentali per l’intero paese e dove milioni di cittadini hanno scelto di vivere e di investire le loro capacità. L’abbandono umano non è l’unica soluzione. Molti decidono di restare, altri di ritornare e altri ancora di provare a sperimentare in questi luoghi nuovi stili di vita. Anche tra i giovani, laureati e diplomati, la voglia di radicamento è un aspetto inedito e ancora poco esplorato. Le storie raccontate emergono da una ricerca condotta su un campione di oltre tremila giovani residenti nelle aree interne dell’intera penisola, che fanno emergere il desiderio di quella che l’antropologo calabrese Vito Teti ha chiamato «restanza». Il libro restituisce una lettura articolata e fa vedere da un lato i fattori che minacciano le possibilità effettive dei giovani di vivere e lavorare nei propri territori di origine ma anche le opportunità legate a una vera e propria «capacità di restare», che richiede di essere coltivata e accompagnata da politiche in grado di rispondere alle esigenze e alle aspirazioni di chi resta. Non sono fragili, hanno solo bisogno di cura.
Assunta Viteritti