L’agnello diveniva tigre
Su un giornale del 6 luglio 1861, abbiamo rintracciato la seguente cronaca, che crediamo interessi gli Acritani e quanti si occupano di “brigantaggio”. Si trascrive pedissequamente.
“Nel mattino del dì 21 dello scorso mese di giugno un drappello di Guardie Nazionali comandato dal sig. Raffaele Falcone sosteneva nel bosco di Corigliano, in Calabria Citeriore, un lungo conflitto con la comitiva del famigerato brigante Gaetano Rosa Cozza. Dopo due ore di vivissimo fuoco, abbenché fosse caduto estinto il milite Vincenzo Scaglione, e ferito l’altro Pietrangelo Celso, quelle valorose Guardie Nazionali disperdevano la intera comitiva, uccidendo tre dei più feroci fra quei masnadieri, a nome Francesco Casone Spaticchio, Antonio Pasturi Valente e Gaetano Ritano Pietratunna, nipote del capobandito Rosa Cozza”.
Sono evidenti le storpiature dei cognomi Casone = Cofone; Pasturi = Pastore, Ritano = Ritacco.
Va detto, cosa sostenuta da scrittori e militari che operarono in quei periodi, che “brigante” si diventava non per spirito pravo, come si è accreditato, ma, in gran parte, per soprusi, che, sistematicamente restavano impuniti. Questi malfattori ritenevano loro tutto concesso, tutto permesso, per diritto di ceto sociale.
Chi doveva rendere giustizia apparteneva alla classe suddetta. Il popolo, perciò, sottolineava la palese ingiustizia, recitando, allusivamente: Duv’ ‘u jùdici penni ‘a giustizzia mori! (Dove il giudica propende la giustizia muore!). La giustizia, perciò, si faceva rilevare, era ingiusta.
Nicola Romano, autore acritano di notevole valore, ma ignorato in patria, diede alle stampe il poemetto: Berardi o il re dei boschi. Vi pone in nota che, data la tanta ingiustizia, un agnello si trasformava in una tigre assetata di sangue.
Questo è il caso del “famigerato” Gaetano Rosa Cozza. Questi ebbe parte non secondaria nei moti del 1848 in Acri, nei quali si rivendicavano, soprattutto, le terre usurpate del demanio comunale, sulle quali il popolo esercitava, da anni assai lontani, gli usi civici.
Negli anni successivi si commette, in Acri, un qualcosa d’illecito. Il padre di Gaetano lo si vuole testimone. S’invita nel Corpo di Guardia, ma è a letto colpito da forte febbre e non può aderire alla richiesta. Viene prelevato forzatamente e, poiché non vuole avallare “la ragion di comodo”, perché non vera, viene malmenato a tal punto che se ne va all’altro mondo.
Tutto è normale per la legge dei potenti.
Gaetano Rosa Cozza sa, per esperienza, che non può avere, né avrà giustizia.
L’agnello, come evidenzia il Romano, si trasforma in tigre e fa le sue vendette.
Sbagliato? Certo. Lui, però, l’ex agnello, vede quell’errata giustizia come l’unica possibile.
Va sottolineato, ancora, che chi si dava alla macchia riteneva indispensabile l’essere temuto, ad evitare che spie e delatori li denunciassero.
Ancora, va precisato che nessun “brigante” morì o visse ricco. C’è da chiedersi: – Allora chi fece fortune ingenti dai loro atti criminali? -. Nessuno ce l’ha detto, né mai nessuno ce lo dirà. I veri briganti, quelli che muovevano le fila e si servivano di quella “manovalanza” non resero mai conto alla Giustizia, forse furono osannati o vissero, come si dice nelle favole: felici e contenti.
Lui, quell’agnello, cantava sconsolato, addebitando tutto alla rea, responsabile Fortuna, alla Sciorta:
La vita de lu lupu haju de fari,
cà cussì vozi la furtuna ria!
Giuseppe Abbruzzo