Il pesante fardello dell’esistere: storia di un uomo sopravvissuto alle brutture della guerra
Si chiamava Giuseppe (nome di fantasia; ometteremo luoghi e altri particolari), uno dei primi casi di cui ci occupammo. Circa 70 anni all’epoca, malportati. Era, in pratica, un trattato di patologia medica: broncopatia cronica ostruttiva severa; pregresso infarto, ictus con scarsi reliquati, arteriopatia periferica, cirrosi epatica con grave insufficienza d’organo e ascite. Appena valutato, partì l’immancabile predica sui rischi immediati per la vita e la necessità di rinunciare ai molti vizi, che, in definitiva, gli avevano permesso e permettevano di affrontare la quotidianità, malgrado tutto. Stop al fumo; all’alcool; alimentazione sana, etc. Ci guardava abbozzando un mezzo sorriso. Terminata la nostra predica, principiò a raccontarci della sua vita. All’inizio ascoltavamo un po’ annoiati e assonnati per il mancato riposo della notte precedente, di guardia in ospedale. Man mano che procedeva nel racconto, la nostra attenzione aumentava fino a incoraggiarlo a continuare. Classe 1924, venne chiamato al fronte, prima in Albania, poi in Russia, da dove, del suo battaglione, ritornarono in pochissimi. “Ho visto morire di freddo, fame, malattie, amici fraterni. Al rientro non riuscivo ad accettare il fatto che io fossi stato privilegiato rispetto alla maggioranza dei miei coetanei”. Principiò a bere; era l’unico modo che gli permetteva di andare avanti. Si innamorò di una ragazza e fu, per lunghi anni, la sua ancora di salvezza. Trovò lavoro ben remunerato. Vennero dei figli e tutto procedeva per il meglio, fino a quando lei un mattino non si svegliò, lasciandolo da solo a riprendere una strada faticosamente ritrovata e con dei figli da accudire e allevare. Si isolò sempre più e la bottiglia la sera divenne l’unica compagna. I figli crebbero e si sistemarono. A quel punto lui si abbandonò ancora di più a quei vizi che, in qualche maniera, gli avevano permesso di vivere. Cominciarono i primi acciacchi, dai polmoni, al cuore, al fegato. Alla fine del racconto, la nostra disapprovazione si tramutò in franca ammirazione per come quell’uomo avesse trascinato, in maniera dignitosa e silenziosa, un percorso ripido e scosceso. Quei vizi – in un’epoca nella quale il prozac non esisteva ancora – erano l’unico modo per resistere. Il prezzo che gli imponevano di pagare lo aveva messo in conto e non si lamentava. Sapeva di avere i giorni contati ma si riteneva comunque fortunato: rispetto a molti suoi coetanei, aveva avuto modo di vivere, amare, assolvere – come diceva – al suo compito biologico e ora era pronto ad andare. Non ce la sentimmo di rimarcare ulteriormente su rischi di cui era ben conscio. Qualche sera dopo ci capitò di scorgerlo da lontano durante una festa: se ne stava in disparte con una bottiglia di birra fredda che stringeva fra le mani ardentemente quasi fosse una donna bellissima: beveva e sorseggiava con piacere un qualcosa che sapeva benissimo che gli avrebbe accelerato la fine. Si accorse che lo osservavamo, ci sorrise e fece spallucce, come a simboleggiare che era ormai tutto scritto ed era giusto così. Dopo qualche mese venne trovato morto in casa, da solo. Ciò che colpì l’operatore che per primo lo vide era un sorriso sulla bocca che, visto il tempo avanzato di ore dalla morte, non lo abbandonò.
La vita di quest’uomo ci sembra, oggi, come un dipinto impressionista: visto da vicino appaiono una serie di macchie di colori, allontanandosi con lo sguardo (e metaforicamente col tempo), il quadro appare in tutta la sua imponenza e significato.
Il racconto è stato volutamente modificato per renderlo non correlabile al alcuno. Qualsiasi riferimento, pertanto, è da ritenersi puramente casuale e non intenzionale.
Massimo Conocchia