Mo’ veni Natali!

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Natale, ai tempi nostri, è poco meno di uno dei tanti giorni di festa. Un tempo, diceva qualcuno, si sentiva di più la cristianità del momento. Noi non siamo tanto d’accordo. Si aspettava quella festa, perché si aveva la gioia di indossare l’abito appositamente confezionato per la festa; si calzavano le scarpe nuove.

Gli artigiani avevano lavoro da svolgere e incassavano qualche soldo. Ce lo ricordano i versi sul calzolaio:

‘U scarpàru, ticchi ticchi,

sempri pòvaru e mai riccu,

veni la sira de Natali,

si fa riccu lu scarparu,

pu’ finisci la ‘mpigna e la sola

e va cantannu ‘a cicirignola.

Si aspettava quella festa, perché si erano conservate, da tempo, la frutta secca e qualcosa di buono; perché per il cenone della vigilia si faceva una bella mangiata.

Il Natale l’aveva preannunciato il suono degli zufoli di canna, che i ragazzi si costruivano da soli. Le donne consideravano, nel sentire quelle note: Quannu sient’ ‘i fisc-chìetti sonari: terulleru è venutu Natali. In tempi più lontani le avvisaglie della festa si erano avute fin dai primi giorni di dicembre. Ne avevano preannunciato, l’arrivo, le fritture e il rituale beneaugurale che vi era connesso.

Aveva preannunciato quel giorno tanto atteso la panificazione, che, se quella di Pasqua era dedicata alla donna, quella del Natale era dedicata all’uomo. Quanti avevano la possibilità economica per panificare lo facevano, perché si recitava: ‘A sira de Natali si sùsin’ ‘i mùorti a far’ ‘u pani. Se si levavano i morti dalle tombe per panificare, non potevano essere esenti gli uomini.

Si preparavano ‘i natalisi, così erano detti i pani del Natale e avevano due forme: collacciu o culluru. Così dette per la forma a collare intrecciato. Sopra si ponevano fiori di pasta, croci e altri simboli, dei quali, magari, si era perso il significato; l’altro pane aveva la forma di sempre, tranne che sulla parte superiore si ponevano dei fili di pasta, formanti una croce. Anche su questi vi erano simboli di pasta dal significato incognito.

Le popolane portavano alle famiglie abbienti, come omaggio natalizio, fascine di frasche, necessarie per preparare i forni; qualche uovo; un gallo ecc. e ricevevano in cambio il baccalà. Quest’ultimo, faceva parte delle nove cose, ossia dei cibi che dovevano essere sulla mensa del cenone.

Il baccalà si preparava fritto e in umido.

Il piatto tipico era: vermicelli ammullicati. Si spolverava, sopra detta pasta, pane insieme ad alici salate. Il tutto abbrustolito con gherigli di noce spezzettati.

Natale si riteneva una notte magica e Padula ci ricorda nel noto poemetto che mel’e farina escia di cerzi… Chi aveva osato verificare e fare rifornimento vi aveva rimesso la pelle.

Notte magica, nella quale si trasmettevano i riti e le formule della magia bianca.

Tutto questo mentre nel camino ardeva un ciocco grosso scelto per l’occasione. Il fuoco restava acceso l’intera notte, come la mensa apparecchiata, perché si credeva che vi si fosse fermata la Sacra Famiglia.

Al fuoco, sacro a Vesta, presso i Romani, si attribuiva una certa sacralità. Se ne asportava, infatti, un tizzo, che sarebbe servito a porlo sul davanzale della finestra, per sedare una furiosa tempesta.

Accanto a quel fuoco le nonne raccontavano di quella notte di prodigio o recitavano a memoria La notte di Natale di Padula.

Il fuoco si accendeva, anche, presso le chiese. Il rito ricordava la festa della luce presso i Romani.

Culminava la serata la messa di mezzanotte.

Le condizioni meteorologiche della serata erano, generalmente, caratterizzate da tempeste e dalla caduta di abbondante neve.

Di tutto questo, ora è rimasto il cenone che, però, non ha più quel fascino antico.

Che dire, comunque? BUON NATALE!

Giuseppe Abbruzzo

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