Vincenzo Rizzuto “e Caino disse: “Andiamo ai campi””

Bello questo lavoro di Vincenzo Rizzuto, un lavoro in cui, nella veste d’un romanzo e d’un saggio, l’autore propone e narra la storia del dramma e della speranza di riscatto d’un popolo. E ne scrive con perfetta conoscenza della problematica, delle sue cause di fondo e delle possibili soluzioni, in una forma suggestiva e coinvolgente che sollecita ad una lettura d’un fiato. E’ bello ed interessante il romanzo, che si svolge fra storie d’amore e d’amicizia, fra imposizioni e rassegnazione, fra paura e coraggio,  fra desiderio di giustizia e di libertà e impegno per l’affrancamento da ogni forma di sottomissione,  fra ambiguità e pregiudizi e fra volontà e lotta per far trionfare l’umana dignità. La narrazione pone, al centro delle vicende, due giovani (Adelaide e Rocco), vittime della realtà del proprio mondo. Dopo tante vicissitudini i due riescono a sfuggire ai gangli della piovra e ai suoi tentacoli, ma ne fa le spese un amico (Mario), che muore per proteggere Rocco. Il saggio, ricco di osservazioni di natura filosofica, propone, invece, un attento lavoro di analisi sull’opera di Giuseppe Antonio Arena. Tanti i temi del romanzo e, fra questi, i più interessanti sono senz’altro quello del nostro Sud e del male che l’opprime, nonché quelli dell’amore e dell’amicizia. I personaggi, creati dalla finzione narrativa di V. Rizzuto, rispecchiano adeguatamente, nei loro “mondi” contrastanti (male e bene), gli aspetti della terra da cui provengono. E sono personaggi che, pur se frutto della fantasia dell’autore, hanno il piglio ed il carattere delle persone reali. Fra essi, anzitutto, mi piace ricordare i due amici Rocco e Mario.  “Nelle ore serali – scrive V. Rizzuto, in riferimento a loro – spesso uscivano insieme e parlavano di tutto, delle loro famiglie, dei luoghi di origine e della nostalgia per la propria terra, la Calabria e la Sicilia, che nell’animo e nella mente di Mario e del maestro Rocco albergavano continuamente come un mito, sospeso tra la fantasia e la realtà, tra il desiderio struggente del ritorno e la maledizione della dura necessità per cui era stato necessario allontanarsene” (cfr. p. 31). Sì, è un mito questa terra e lo è anche per chi scrive, un mito che sembra richiamare l’antico mito di “Anteo e Gea”. E di questo mito le pagine di V. Rizzuto esprimono il senso nell’ansia del ritorno alla terra che, per lui, è anche ritorno alla madre, al padre, alla famiglia, come si coglie già nella dedica, ma è anche sogno e speranza d’una dimensione migliore. La stessa speranza brilla e vive nelle pagine iniziali del  “Saggio sull’opera di Giuseppe Antonio Arena”, in cui egli ama dire del protagonista: “non fu un asceta di professione ma certamente lo fu di animo, vista la sua caparbia aspirazione ad un mondo migliore, la sua instancabile attenzione ai più deboli e l’avversione sdegnosa ad ogni forma di ingiustizia!” (cfr. p. 162). Tornano, in queste osservazioni, la stessa dignità e la stessa nobiltà d’animo che appaiono, sin dalle prime pagine, nei protagonisti e nei personaggi positivi del romanzo. Sono due narrazioni parallele, il romanzo ed il saggio di V. Rizzuto, due narrazioni che mettono a fuoco storia e temi forti accompagnati da uno stesso desiderio di riscatto e di catarsi.  Due “mondi” in contrasto vivono nel romanzo e si dimenano in una stessa dimensione abitante, in una stessa realtà e, talora, in una stessa umana espressione. Bella la figura di Adelaide e bella la sua rivolta contro la madre. “Basta, basta, – le grida con tanta dignità – non ne posso più di te, di mio padre e di tutta la vostra razza alla quale mi vergogno di appartenere. (…). Con mio figlio me ne andrò il più lontano possibile per evitare che anche lui possa essere avvelenato da questo ambiente maledetto. Non ti basta che mio padre, tuo marito sia morto per la violenza in cui viveva e in cui continui a vivere anche tu? (…). Questa non è vita, mamma, quando lo capirai una volta per tutte?” (cfr. pp. 106- 107). C’è tutta l’onestà intellettuale di V. Rizzuto, c’è il suo profondo rigore morale in questa impennata di Adelaide. Del resto, ogni narratore vive nei propri personaggi migliori e positivi e V. Rizzuto vive nella rivolta di Adelaide, ma vive anche e soprattutto in personaggi come Mario, come Rocco Ceccati e suo padre, il maestro Alfio Ceccati. E di quest’ultimo, del maestro Alfio, egli fa “un padre esemplare”, un uomo che “si era distinto per la sua passione civile e l’alto senso di giustizia sociale, che avevano caratterizzato la sua lunga esistenza” (cfr. p. 112). Senti vibrare, nella figura di questo maestro, i sentimenti di V. Rizzuto ed il suo spirito di educatore di coscienze pure e libere, nel senso della libertà prima e fondante, che sola può dar vita e senso alle altre libertà. Ed uno spirito anologo ritrovo nel saggio. In esso, ad un certo punto, commentando un brano dell’opera del Longo dal titolo “Dell’uomo naturale”, riportato da Arena, egli afferma: “Questo breve passo fa di Longano, ci permettiamo di aggiungere noi, un continuatore diretto dei grandi naturalisti meridionali come Giordano Bruno e Tommaso Campanella che, prima di lui, hanno pagato, con il rogo il primo e con 27 anni di carcere e torture bestiali il secondo, il prezzo della medesima idea di tolleranza e di libertà da loro sposata” (cfr. p. 177). Ebbene, a questo punto, mi pare giusto, nell’avviarmi alle conclusioni, domandarmi quale sia il messaggio dell’opera di V. Rizzuto. Cosa vuole dire, a noi lettori, questo suo lavoro? In primis, vuole invitarci ad un impegno serio perché non ci sia più alcun Caino, che conduca il fratello ai campi per ucciderlo. E’ questa, in fondo, la speranza d’un mondo migliore. V. Rizzuto ci crede e, in realtà, il senso del suo messaggio  è nella speranza che, alla fine, la giusizia possa vincere sempre ed il bene abbia il proprio giusto posto. Ma la misura più profonda del pensiero e del lavoro di V. Rizzuto è nel sollecitare non solo l’impegno per costruire un “mondo” in cui l’odio sia bandito e si affermi l’amore, ma anche il dovere di lottare per un “mondo” affrancato da ogni forma di povertà, liberato dal sonno dell’ignoranza e capace di coltivare il sapere, come fonte di elevazione umana, e la cultura libera e liberatrice, come viatico essenziale di catarsi e di riscatto. Forse anche per questo, egli chiude il proprio saggio su Arena sottolineandone l’amore per la poesia, quella poesia che, per lui, foscolianamente, è esempio “di liberal carme”, cioé di poesia capace di ispirare e di suscitare sentimenti di libertà. “Il suo – scrive V. Rizzuto con riferimento ad Arena – è stato sempre un canto libero, anarchico, viscerale” (cfr. p. 187). In fondo, i poeti sono coloro i quali coltivano i sentimenti, la libertà ed il cuore, quel cuore dimensione abitante dell’amore cui deve attingere l’uomo per farsi, in concreto, artefice d’un nuovo disegno dell’umanità e del mondo.

Eugenio Maria Gallo

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