Il guardiano del Purgatorio
Primi anni ’70. La zona del cosiddetto Purgatorio era una sorta di oasi, interamente coltivata; il fiume le scorreva a lato, dopo avere attraversato buona parte della città. Subito dopo il ponte di San Domenico, si attraversava un viottolo sterrato, alla fine del quale c’era un cancello in legno, che spalancava al visitatore una vista bellissima fatta di verde, colture, con in mezzo il cipresso tutt’ora presente. Chi si prendeva cura di quell’oasi era un uomo di piccola statura, esile con un cappello che presentava tre escavature all’apice, quasi ad aumentarne la statura e conferirgli un maggior peso. Era un uomo poco socievole, avvezzo a stare da solo. Non sposato, aveva trascorso tutta la sua vita in quel posto. Nei pomeriggi estivi, se ne stava – nelle poche ore di riposo – a fumare la pipa, nelle parte più calda del giorno, sotto il fresco del cipresso con un cane da caccia che gli dormiva a lato. Aveva le fattezze e la fisionomia di un uomo del secolo che lo aveva visto nascere. La malizia dei ragazzi ne aveva fatto un bersaglio preferito. Ci piazzavamo davanti al municipio, sulla terrazza che ospita il monumento ai caduti, con una scorta di sassi di varie dimensioni e le lanciavamo nel vuoto. La distanza era tale, fortunatamente, che quelle pietre non raggiungevano mai il bersaglio. Non paghi di quella malizia, ci apprestavamo ad addentrarci nell’orto per rubare lattughe o pannocchie di mais. Appena lo sentivamo urlare “figli di p…..a!”, correvamo come disperati per sfuggire alle ire di chi si vedeva frodato del proprio lavoro (lui era solo un colone, per cui doveva, oltretutto, rendere conto di ciò che produceva). Un pomeriggio ci capitò di inciampare a finire nel fossato laterale che ospitava il greto del fiume. Ci rialzammo claudicanti per la caviglia dolorante. Ci raggiunse e, immediatamente, scorse il terrore nei nostri occhi. Cominciammo a sudare e ce ne stemmo per qualche secondo con gli occhi chiusi e le braccia sulla fronte a mo’ di barriera. Si accorse che sanguinavamo dalla gamba. “T’ha rutt’i corna, benimia!” furono le sue prime parole, dopodiché tirò fuori un fazzoletto ecru per il numero di volte con cui si era evidentemente asciugato la fronte o il viso; lo bagnò nell’acqua e prese a tamponarci e pulirci l’escoriazione che ci eravamo procurati correndo. Ci prese in braccio e ci portò nella capanna in cui viveva, una misera dimora in pietra sottotetto e senza pavimento. Ci domandò “a chi arrazzassimo”. Proferimmo le nostre origini con molta reticenza, conoscendo lo stretto legame di parentela con nostra nonna (erano cugini veri). Ci medicò come poteva la gamba e ci disse di andare. Non ricordiamo quale scusa inventammo a casa per giustificare il nostro stato. Abbiamo ancora in mente nitido il ricordo della notte successiva, che passammo svegli per la paura, l’emozione, lo stupore per come quell’uomo rude aveva ricambiato la nostra cattiveria con cure amorevoli. Dopo qualche giorno ritornammo a trovarlo, ci accolse con i suoi modi, chiedendoci bruscamente se fossimo ritornati a rubargli qualcosa o a prenderlo a sassate. Ci limitammo a dire che eravamo passati per ringraziarlo. Ci offrì delle nespole che aveva appena raccolto e ci disse di non dividerle con nessuno. A suo modo ci aveva fatto intendere di avere gradito la nostra visita. Da allora le spedizioni “punitive” e i furti cessarono su nostra ferma insistenza. Quasi 15 anni dopo, rientrando a casa dall’università, ci capitò di leggere il suo nome sui manifesti. Se n’era andato discretamente, così come discretamente aveva vissuto in quel “purgatorio” terreno, che, siamo certi, gli sarà valso il passaggio ai piani superiori.
Massimo Conocchia