L’autonomia differenziata

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Da decenni si discute di federalismo in Italia.

Il modello di organizzazione statale, nel quale le competenze e le funzioni sono attribuite secondo il principio di sussidiarietà esvolte al livello di governo territoriale più prossimo ai cittadini, ha avuto un certo successo, dando vita a dimensioni istituzionali, si pensi su tutte agli Stati Uniti d’America ed alla Repubblica Federale tedesca, dove l’esercizio del potere pubblico ha generato crescita e stabilità economica e sociale.

In Italia, invece, le cose sono andate diversamente.

All’origine, non la scelta di un sistema federale, ma l’adozione di un modello regionale, per molti versi peculiare.

Il Costituente del 1947, traendo spunto dal modello spagnolo, nel quale il processo di regionalizzazione era avvenuto su una forma di autoidentificazione del basso delle comunità regionali, simileper molti versi a quello federale, ha optato per un percorso differente.

Le Regioni sono state disegnate dal legislatore centrale e calate dall’alto nella realtà istituzionale del Paese.

Una scelta di tipo giacobino.

Le intenzioni nella scelta del modello erano valide.

Si volevano dare risposte politiche alle spinte autonomiste di territori quali l’attuale Sicilia e Val d’Aosta, garantendo, al contempo, un processo di promozione della partecipazione delle popolazioni interessate alle decisioni che più da vicino toccavano la loro vita, facendo leva su una possibile quanto auspicabile riforma dello Stato in cui, a seguito dell’introduzione delle Regioni, si sarebbe dovuto arrivare ad un sistema misto di amministrazione, con affiancamento ai ministeri romani degli enti locali.

Qualcuno immaginava anche che la devoluzione delle competenze alle Regioni, avrebbe assicurato una maggiore qualità dell’attività legislativa del Parlamento nazionale, che si sarebbe potuto concentrare sulle grandi decisioni politiche.

Le cose, è chiaro, sono andate diversamente da quanto immaginato, tanto che qualche studioso ha parlato, a buona ragione, di un’occasione mancata.

Forti resistenze delle burocrazie centrali, l’organizzazione nazionale dei partiti, nella sostanza sempre restii a devolvere sfere di scelte delle classi dirigenti a livello locale, stabili tendenze consociative del sistema politico nazionale, hanno innalzato muri insormontabili al decollo della riforma regionalistica italiana.

In questo processo, comunque, qualcosa è cambiato negli anni.

Negli anni ‘90, la comparsa sulla scena politica italiana di un partito a forte matrice federalistica, la Lega Nord, ha dato vita all’apertura di un costante e di certo utile dibattito sulla necessità di una riforma in senso federale dello Stato.

Erano gli anni di un centralismo dimostratosi alla fine dei giochifallimentare, giustificato da un’irrisolta crisi del Sud, nel quale emergeva la tragica presa di coscienza di una gestione macroeconomica dissennata, che aveva portato alle scelte dolorose del governo Amato nel 1992, con cui il Paese si rendeva conto dell’enorme debito pubblico scaricato sulle future generazioni, di cui portiamo ancora oggi il fardello. 

Con Tangentopoli la corruzione aveva corroso in profondità tutte le istituzioni pubbliche e si gridava alla crisi morale della Nazione.

Il federalismo italiano, con la sua speranza in un rapporto tra elettori ed eletti più stretto e controllabile e perciò più sano ed efficace, è dunque nato tardi.

Da allora, diversi interventi normativi fino alla corposa riforma costituzionale del 2001, confermata dal referendum popolare.

Oggi, le regioni del Nord recriminano maggiore autonomia, forti della loro capacità di saper gestire, con un certo grado di efficienza, quelle competenze affidate, dalla Costituzione, in via concorrente, ed in alcuni casi in esclusiva, alla Stato centrale.

IL 17 novembre 2022, il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato alle Regioni italiane la bozza di disegno di legge: “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

Si tratta di un disegno di legge che prevede, nella sostanza, su iniziativa delle singole Regioni, ed attraverso un articolato procedimento di approvazione di intese fra lo Stato e le Regioni, la devoluzione alla stesse di funzioni relative alle materie, a legislazione concorrente, previste dal terzo comma dell’articolo117 della Costituzione, e delle materie, esclusive dello Stato,indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l)limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) norme generali sull’istruzione ed s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Il progetto legislativo, rappresenta una chiara accelerazione verso una forma di federalismo c.d. differenziato, che lascia alle singole Regioni la possibilità di richiedere l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, che possano riguardare anche una materia.

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In un prossimo futuro, si aprirà un lungo ed articolato processo di discussione in sede parlamentare e regionale che, tra gli altri, avrà come tema centrale quello delle risorse corrispondenti alle funzioni oggetto di trasferimento per le quali è previsto, in attesa della determinazione, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, dei Livelli Essenziali delle Prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, sanciti dall’art. 117, 2° comma, lettera m) della Costituzione, il “criterio della spesa storica”.

In buona sostanza, sino alla definizione del LEP, le Regioni che avranno sostenuto, storicamente, più spesa per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni trasferite, avranno più risorse finanziarie, umane e strumentali.

Nella sua formulazione attuale, non può sottacersi il rischio di una nuova fase che potrà generare ulteriori squilibri territoriali tra il Nord ed il Sud del Paese, con un primo nelle condizioni di richiedere maggiori competenze, ricevere più risorse ed allocarle meglio, ed un secondo, affetto da cronica incapacità amministrativa, di rimanere al palo con l’attribuzione delle materie, la spesa corrente e di conseguenza l’efficace erogazione dei servizi.

Chi ne pagherà il conto, è sempre utile ripeterlo, saranno i cittadini.

Questo elemento, comunque, non dovrà scoraggiare e dovrà mettere la classe dirigente locale e territoriale nelle condizioni di accettare la sfida e prepararsi adeguatamente ad un futuro che parla di federalismo.

Tocqueville insegnava che è solo dal basso che il senso di responsabilità può essere creato e sviluppato. 

Ed è questo il punto: il federalismo si basa sul binomio, autonomia e responsabilità, che ne rappresenta la sua intima essenza.

I cittadini devono godere visibilmente del buon governo locale e devono misurare loro stessi, magari pagandone le conseguenze, la capacità di gestione di coloro che hanno eletto. 

Questo è il futuro, non il ritorno ad un insano centralismo, in cui agli errori dei governanti si rimedia con la garanzia di ripianare,comunque, le loro inefficienze ed incapacità.

Angelo Montalto

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