Oltre il vero, il gioco serio degli inganni di Fabio Bix/ Gallerja
Se la fotografia è per antonomasia strumento della verità, della testimonianza diretta, Fabio Bix con le sue composizioni scultoree che falsano il paesaggio visivo, apparenta il suo lavoro a quella stagione surrealista per la quale la verità non è che una tra le mille proiezioni che vivono dentro all’uomo prima che fuori. Una ricerca fondamentalmente filosofica che però trova nel divertimento della manipolazione dell’immagine e della materia stessa la sua forma sana di esprimersi. Viene in mente quella stagione dei meravigliosi ritratti scattati a Salvador Dalì da Philippe Halsman o le prospettive modernissime, verosimili eppure stravolte, del fotografo tedesco Herbert List, che, come Bix, lavorava categoricamente con la sua compatta Rolleiflex (Bix si è aggiornato con uno smartphone); una scelta che ha proprio a che fare con la reazione ad una gerarchia in cui il mezzo è determinante per il risultato. Quello che invece primeggia nelle scelte di questi fotografi/non fotografi è l’idea creativa, e un utilizzo della fotografia che allo stesso tempo quasi se ne prende gioco. E come in molti giochi al fondo si deposita quella voglia di mettere in discussione un ordine precostituito. L’arte per l’arte. La visione non al servizio della utilità scientifica, ma dell’immaginazione.
Se il presupposto dell’operazione artistica di Bix e di tutti quegli artisti che aspirano alla creazione di un senso nuovo delle cose ha a che fare con la complessa operazione di immaginare una nuova estetica e un nuovo rapporto tra le cose e l’umanità, allo stesso tempo l’operazione di intervenire sulla realtà attraverso il mezzo fotografico è figlia di quella infantile pulsione, destabilizzante eppure naturale, di manipolare la verità a vantaggio della pura illusione. Chi non ha mai posato fingendo con sforzo di reggere in piedi la torre di Pisa, o di tenere sul palmo della mano un amico posto in prospettiva strategica in una inquadratura? È nell’indole di ogni uomo, meglio di ogni bambino, cercare un modo per boicottare, anche bonariamente, la realtà, che spesso sembra statica e inappagante e gli artisti come Bix maneggiano, insieme con la poeticità che viene dallo studio del bello, dalla sensibilità verso l’armonia e dall’amore per l’arte e la sua storia, questa indole così semplice e così rivoluzionaria allo stesso tempo, tutta umana.
L’intervento materico, a tutti gli effetti scultoreo, di Fabio Bix, oltre a tendere la mano a quella stagione fotografica di sperimentazione e inquietudine degli anni Trenta che preludevano ad un conflitto mondiale che avrebbe frantumato ogni certezza e che arriva fino alle elegantissime composizioni di Luigi Ghirri, rivela una parentela con l’arte classica, rifacendosi a modelli di drammaticità barocca mescolati però con l’isolamento, la solitudine e tutto il silenzio che hanno trovato nella Metafisica e in De Chirico le loro voci più pure.
Testo critico a cura di Ofelia Sisca