Protesta de le femmene

Tempo fa si è scritto su questa rubrica e su quella redatta da Massimo Conocchia sulla leva militare dopo l’Unità d’Italia. Ora, avendo rintracciata una gustosissima protesta delle donne su un giornale napoletano, dei primi anni del secondo Ottocento, redatto completamente in dialetto, che ha come testata: Lo nuovo diavolo zuoppo, vi si vuole mettere a parte.

Come si è detto negli interventi citati la leva militare, dopo l’Unità, era e fu vista come vera iattura dalle popolazioni meridionali. La conferma è nella faceta citata lettera. Essa è indirizzata agli “Onorevolissime Deputate, Secature (ndr Senatori), e Ministre de lo Regno d’Italia!”.

Riteniamo che i nostri lettori siano capaci di capire il napoletano, perciò evitiamo la traduzione.

Vuje (scrivono le donne), … avite chiammato sotto a ll’arme sordate congedate, disponibbele, Guardia Mobile, primma e seconna catecoria, primmo e secunno ruolo, e pe a fì la riserva addò nce stanno zuoppe, cecate e scartellate (ndr gobbi), perché s’ha da fa l’Italia”.

Le donne, perciò, fanno rilevare di non poter permettere “che li core nuoste restassero senz’ammore”; e dicono che questo è troppo! Ed evidenziano “Nun ci avite restato manco n’annetta-recchie, no giovane de 20 anni, niente, niente! tutte surdate! Tutte!”.

La loro situazione, fanno rilevare, era disperata, perché si facevano: “Leve ncopp’a leve, surdate ncoppa a surdate, e nuje restammo senza marite e senza nnamurate!”.

Se avessero ragione o no, come si dice in questa presunta protesta scritta, poco importa. L’autore s’è divertito a mettere sul ridicolo qualcosa di estremamente tragico, perché, come detto altra volta la leva, fra l’altro, durava ben sette/otto anni.

La frecciata agli on.li Rappresentanti della Nazione e il resto è degno di nota, per essere mordace. Simpatica è, però, anche la proposta: “vuje che tenite le llengue cchiù lunghe de nuj’autre femmene, e chiacchierate tanto quanno v’avarrisseve de sta zitto, e ve state zitte quanno averrisseve de chiacchiaria assaje, sacciate che nuje volimmo fa na Legione de Volontarie-Femmene e volimmo nuje pure fa la guerra a li Tudische, e a li vurzille de li spuse nuoste, e pecchesto dicite a Mustaccione (ndr Vittorio Emanuele II) che sprubbecasse subbeto lo Decreto pe nuje”.

La petizione, come è evidente è una presa in giro, per sottolineare un gravissimo disagio per le popolazioni, che dovevano subire quella legge capestro. In questo caso specifico a subire sono le donne le donne. Queste evidenziano che restavano, per le partenze forzose, impossibilitate a fare l’amore, per mancanza di uomini.

Chi ha letto il mio Padula poco noto e sconosciuto avrà letto d’una trovata, per aggirare l’assenza e la genialità di donne altolocate che, con la scusa di mettersi a disposizione per curare i feriti, “invece di guarire gli ammalati li portavano a morte”, come diceva il comandante medico al seguito dei Mille.

La necessità aguzza l’ingegno!

Ripetiamo, tanti di quei chiamati alle armi, per protesta si diedero alla macchia e furono detti briganti.

Va precisato che al legislatore poco importava lasciare nella miseria famiglie, che per sette/otto anni, per i loro uomini chiamati alle armi, non percepivano sussidio alcuno. C’è da chiedersi: – Il nuovo Stato, che prometteva Giustizia e Libertà si era posto questo problema? -. Certamente no, sapeva solo dire che chi protestava all’ingiustizia era brigante.

Giuseppe Abbruzzo

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