Dal monte Taigeto ai giochi paralimpici

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Che io possa vincere, 

ma se non riuscissi, 

che io possa tentare con tutte le mie forze

Special Olympics Inc.

La grandezza dell’uomo

è nella sua decisione 

di essere più forte della sua condizione

Albert Camus

DAL MONTE TAIGETO AI GIOCHI PARALIMPICI

(quando le barriere del pregiudizio lasciano spazio all’amore per la vita)

Se venisse chiesto di individuare un percorso di interrelazione tra attività fisiche, psicomotorie, riabilitative, sportive e disabilità (o disabilità e sport), il titolo potrebbe essere il seguente: dal monte Taigeto ai giochi paralimpici.

Infatti, in un passato neppure molto remoto disabilità e sport non coesistevano. A un disabile era impossibile partecipare ad un evento sportivo sia come spettatore che come atleta amatoriale o agonista. 

Fare sport oggi non è più prerogativa dei fisicamente integri com’era nei principi di De Coubertin.

Grazie alle nuove tecniche messe a disposizione dalla scienza, alla scoperta e utilizzo di nuovi materiali, a strumenti di classificazione internazionali elaborati e pubblicati dall’OMS come la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute, meglio conosciuta come ICF e, soprattutto, al decadimento di certi radicati ed insensati pregiudizi culturali che stanno man mano lasciando il posto ad un maggior spirito d’eguaglianza che evita di giudicare con sufficienza le persone condisabilità rispetto ai normodotati, indistintamente tutti possono e devono cimentarsi nelle varie discipline sportive, magari la più congeniali alla propria disabilità, intesa questa dall’OMS nell’ICF,“come termine ombrello per menomazione, limitazione dell’attivitàe restrizione della (alla) partecipazione, usata pertanto per indica gliaspetti negativi dell’interazione tra individuo con una condizione di salute e i fattori contestuali di quell’individuo, sia essi ambientali e personali. (Per una migliore comprensione della terminologia e del significato attribuitogli dall’ICF si invitano gli interessati ad una lettura della stessa). 

Grazie alle Paralimpiadi e ai successi ottenuti dagli atleti paralimpici in campo internazionale, il mondo dello sport delle persone con disabilità è arrivato ad imporre i suoi atleti e le loro “gesta” all’attenzione dei mass media, sia, a livello nazionale, sia, a livello internazionale.  

Nel 1948, il neurochirurgo polacco naturalizzato inglese Ludwig Guttmann, organizzò una competizione sportiva per veterani della seconda guerra mondiale con danni alla colonna vertebrale o varie menomazioni.

Lo scopo fondamentale del medico Ludwig Guttmann, che può considerarsi il precursore dello sport per disabili, sia esso amatoriale che agonistico, era quella di riuscire, tramite gli stimoli dello sport,  a sviluppare in modo ottimale le capacità residue della persona condisabilità ed a recuperare un buon stato psicologico per raggiungere la massima autonomia possibile ed una dignitosa qualità di vita, coniugando, il recupero psicofisico e l’autonomia funzionale possibile da un lato e, l’inclusione sociale dall’altro, fine, sicuramente da perseguire in modo efficace ancora oggi.

Nel 1952, anche atleti olandesi parteciparono ai giochi dandogli cosi, un carattere internazionale. La competizione prendeva il nome da Stoke Mandeville, la cittadina del Buckinghamshire che ospitava annualmente tali gare.

Nel 1958 il medico italiano Antonio Maglio, direttore del centro paraplegici dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, propose di disputare l’edizione del 1960 a Roma, che nello stesso anno avrebbe ospitato la XVII Olimpiade. I Giochi si disputarono dal 18 al 25 settembre con la presenza di 400 atleti in rappresentanza di 23 Paesi. L’edizione di Roma segnò l’avvio del percorso che avrebbe condotto alla nascita delle Paralimpiadi nella sua forma attuale.

Praticare sport rappresenta, infatti, un’occasione per impegnarsi nel superare gli ostacoli, per lottare nel raggiungere un obiettivo mettendo in conto sofferenze e sconfitte così come avviene per tutti. 

Anche le persone con disabilità, al pari dei normodotati, godono dunque degli stessi benefici che derivano dalla pratica sportiva: sono in grado di padroneggiare meglio il proprio corpo, modificare, incrementandola, la propria autostima, accettare i propri limiti e, al contempo, testare le proprie potenzialità. 

La persona con disabilità può dunque confrontarsi su più fronti: con se stessa, con la propria menomazione, con gli avversari e con i compagni di squadra, il proprio allenatore, gli amici, i tifosi, con le paure e le preoccupazioni della famiglia. 

Per questo motivo,  sia che si pratichi attività sportiva nel senso di vero e proprio agonismo, sia che essa rappresenti un’attività di recupero o semplicemente un impegno ludico-motorio, la persona con disabilità può sperimentare concretamente occasioni di affiliazione condividendo spazi e momenti di pratica sportiva sia, con altre persone con disabilità, sia, con persone normodotate. 

Infatti, solo condividendo esperienze con altre persone e quindi regolando la propria vita su quella collettiva l’essere umano si riconosce come persona e può godere di possibili occasioni di inclusione sociale. 

Sperimentare la vita di gruppo costituisce, dunque, una notevole opportunità di sviluppo e, al contempo, permette di apprendere modelli di comportamento più appropriati al vivere sociale. 

Come afferma la Professoressa di Didattica e Pedagogia Speciale presso l’università di Bologna Roberta Caldin nel suo volume “L’integrazione possibile “, “per creare una nuova cultura dell’integrazione, che attenui i pregiudizi e gli stereotipi sulle persone con disabilità e favorisca l’esigibilità dei diritti, è necessario sviluppare una cultura dell’apprendimento reciproco che produca significati, che risulti comunicabile, situando gli incontri con il mondo nel loro contesto culturale appropriato: una nuova cultura dell’integrazione esige una nuova comunicabilità realizzata in contesti culturali di apprendimento reciproco e di dimensioni di apprendimento”. 

L’attività fisica non produce esclusivamente un benessere fisico. Non si ottimizzano soltanto le capacità motorie. È importante rilevare, infatti, che in persone con disabilità di tipo mentale, è possibile favorire attraverso l’attività motoria (specie il nuoto o l’equitazione) lo sviluppo delle capacità logiche ed intellettive. Ciò addirittura diventa un importante strumento educativo per il suo processo evolutivo. Oltre a favorire lo sviluppo cognitivo, diviene motivo di emancipazione e accrescimento. 

In proposito ecco il parere della Dott.ssa Elisabetta Ghedin che afferma come “L’attività motoria diventa strumento educativo e rieducativo di grande efficacia soprattutto se non perde l’aspetto ludico. Sviluppo di potenzialità individuali, incremento di capacità ed acquisizione di abilità, integrazione in contesti di vita ricchi di relazioni significative, rendono il ruolo dell’attività motoria e sportiva fondamentale nell’intervento rivolto a soggetti disabili che, in questo modo, hanno la possibilità di trovare elementi di successo e valorizzazione personale, praticando, con alta motivazione e divertimento, un’attività particolarmente benefica. Oltre al miglioramento della forma fisica, allo sviluppo cognitivo conseguente all’apprendimento motorio, alla socializzazione conseguente all’integrazione nel mondo sportivo, vi è un miglioramento dell’autostima. L’attività motoria per la persona disabile è l’esaltazione delle sue, anche se pur residue, capacità e di ciò che sa fare, in un mondo che sempre gli ricorda ciò che non è in grado di essere e ciò che gli manca”. 

Valentino Coschignano

Associazione Raggio di Sole

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