Ricordando l’amico fraterno Francesco Scaglione 

     Dal profondo dell’anima non avrei voluto ricordare oggi per nessuna ragione il mio vecchio compagno; ma so che devo farlo perché Francesco è appartenuto alla collettività come pochi altri per disponibilità e generosità disinteressata verso tutti: la sua opera, come dipendente dell’ufficio tecnico del comune,andava sempre al di là dei suoi obblighi quando si trattava di alleviare i disagi della gente. In quel caso ‘Francescone’ non guardava l’orologio, non lasciava il lavoro a metà, la sua giornata veniva prolungata ‘usque ad finem’, oserei dire, con accanimento, anche quando il suo compagno di lavoro gli ricordava che la giornata era finita, che addirittura era calato il buio!

E la gente del ‘villaggio’, che capisce quando vuol capire, ha amato il caro compagno per questa sua innata generosità, non ci sono dubbi su questo!

Io mi ero legato a lui perché avevo sperimentato queste sue qualità, questi suoi valori fin dai lontani anni Cinquanta, quando con lui frequentavo le ultime classi delle scuole elementari negli scantinati della casa del geometra Meringolo, accanto al vecchio mulino ‘Scirocco’, oggi Sposato, e al vecchio distributore di benzina dei Caruso. 

Con due o tre classi eravamo stati allocati in quei locali di fortuna, provenienti dall’edificio delle ‘Monachelle’, dove era caduta una trave, che aveva reso inagibile un’ala dello stabile.

Con Francesco, in quelle aule disadorne, eravamo compagni di banco; lo ricordo ancora mentre un giorno si presentò con uno dei primi esemplari di penna ‘biro’, che nessuno ancora conosceva, nemmeno il nostro maestro, ‘don Demetrio Capalbo’. 

Francesco aveva quella strana penna perché i suoi gestivano in via regina Elena, davanti al mitico bar Meringolo, una tabaccheria dove si vendevano anche le prime ‘biro’.

Ebbene, quella mattina il maestro, avendo notato che il mio compagnoscriveva con quello strano aggeggio, che non assomigliava affatto al pennino ‘Cavallotti’, intinto nell’inchiostro del calamaio, convocò Francesco alla cattedra e con tono burbero gli chiese: 

–Scaglione, si può sapere con che cosa scrivi? Fammi vedere.– Gli prese la ‘biro’, che girò e rigirò fra le mani con grande curiosità, e alla fine concluse:

–Ritorna al banco, questo affare lo tengo io, tu devi usare il pennino e il calamaio, diversamente chissà cosa mi combinerai!–

Quella mattina a nulla valsero le parole accorate di Francesco per riavere la sua ‘biro’, che avrebbe di lì a poco sostituito per sempre gli storici pennini ‘Cavallotti’.

Negli anni successivi Francesco continuò ad essermi ancora più fraternamente amico e compagno perché fu mandato come discepolo nella bottega di mio padre, e allorainsieme facevamo tante cose: giocavamo con la trottola, a monete battute contro il muro, ci innamoravamo spesso della stessa ragazza, per la quale a volte scoppiavano veri e propri litigi perché ognuno rivendicava il diritto di averla scoperta per primo, l’interessata naturalmente era e rimaneva per sempre ignara di tutto. 

Si andava anche al cinema insieme a vedere ‘Maciste’, ma la cosa che ci univa di più era il lungo cammino che ogni sera, quando mio padre chiudeva la bottega, facevamo per recarci alla torre, detta ‘castello’, per dare la carica all’antico orologio comunale, rimesso in movimento negli ultimi anni Trenta da mio padre.

Quello era l’appuntamento più importante, più gratificante in quegli anni spensierati della prima giovinezza, anni che però passarono presto, veloci perché ‘Francescone’ lasciò la nostra bottega per arruolarsi nella marina militare.

Partì quasi all’improvviso, lasciandomi con l’amaro in bocca, sconsolato, solo; con lui se ne andava per sempre un pezzo della mia esistenza, un compagno del cuore, mi si permetta di usare un termine oggi forse del tutto desueto e decadente fra i giovani, ma allora, per me, pregno di significato ancestrale profondo, davvero ineffabile.

Francesco dopo anni lasciò la Marina militare e tornò in paese a prestare la sua opera in comune; così ci rincontrammo, e ci riabbracciammo, ma ormai eravamo divenuti grandi, anch’io avevo lasciato la bottega di mio padre per legarmi al ‘libro’, cheavevo scoperto da autodidatta, ed entrambi seguivamo strade che, sì, andavano in direzioni diverse, ma che di tanto in tanto si sono incontrate sempre; in questi incontri ‘Francescone’ è rimasto sempre il mio fraterno amico. 

Oggi non c’è più e, con tutta l’anima, confesso che mi manca, che avverto lo stesso vuoto che ho avvertito, ragazzo, quando è partito per la Marina militare; ora però è partito per sempre verso il ‘gran tutto’.

Con un grande sforzo ti abbraccio ancora, amico mio!

Vincenzo Rizzuto

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