La confessione di un rivoluzionario toscano
Siamo nel 1864 e un rivoluzionario toscano si rammarica perché quella realizzata non era l’Italia che sognava. Vincenzo Padula scriverà, nel 1872, qualcosa di simile nel manifesto per la sua candidatura a deputato nel Collegio di Verbicaro [Vedi “Confronto”, a. I (1975), n. 1].
“Il popolo, il vero popolo italiano non ha preso parte diretta al nostro movimento (…) Il popolo ci ha lasciato fare, benché con qualche dispetto, poiché amava le sue antiche consuetudini, ed il prete gliele faceva creder sacre: ma noi gli abbiamo detto che ci lasciasse fare e starebbe meglio”.
Che avvenne intanto?
“Eh! il popolo, a cui venne promesso meglio ha avuto peggio; imposte gravissime di ogni natura, violenze alla sua indole e alle sue consuetudini, offese alle sue credenze… Il governo ed il Parlamento italiano avrebbero sempre dovuto avere in mente che essi erano fatti e messi là pel popolo italiano. Invece noi siamo rimasti un partito diviso in fazioni, un partito anche poco numeroso relativamente; il popolo, e specialmente il rurale, è rimasto estraneo al movimento e non ne ha sentito che i danni. Vedete che questo è un errore, nel quale noi tutti siamo caduti e cadiamo, di crederci sul serio noi soli il paese. Dal primo ministro a me, tutti ci agitiamo, ci consultiamo, ci ispiriamo fra noi.
Abbiamo finito per mutar nome alle cose: abbiamo chiamato nazione un partito; ma le cose non le abbiamo potute mutare.
Il bello è quando parliamo di popolo.
Ma il popolo chi lo conosce? noi non parliamo la sua lingua, non sappiamo i suoi bisogni, non intendiamo le sue domande, non abbiamo le sue credenze. Popolo!… Ma il popolo di cui parliamo noi, o siamo noi stessi che per vaghezza ci mettiamo la cacciatora e il berretto; o è qualche popolano, che, cresciuto in mezzo a noi, culto, fatto civile, quanto più si è avvicinato alle nostre, più si è allontanato dalle idee di sua classe.
Per il resto, in Toscana come in Romagna, in Lombardia come in Calabria, è sempre la cosa stessa; il popolo è estraneo al nostro moto, non l’ha capito; l’ha sofferto con vaga speranza, lo riprova e se ne duole ora per dura esperienza di male.
Il popolo lasciò fare non fece. Degli altri, pochi, ma molto pochi, votarono l’annessione per fede e per ferma risoluzione. I più furono trascinati dalla passione del momento, dalla paura del ritorno di Leopoldo di Lorena (ndr dominante in Toscana), dalla speranza di vedere d’un tratto mutata la faccia del mondo e ricondotta l’età dell’oro; ma ora che non han visto correre latte i fiumi e stillare miele le quercie; ora che invece hanno avuto e nuovi pesi e nuovi tormenti, che giova tacerlo? Rimpiangono il passato, hanno dimenticato i mali di prima, e desiderano mutare. Macchiavello era toscano; e un luogo delle sue opere, ove parla di questi mutamenti delle opinioni popolari, potrebbe essere scritto ai di nostri”.
E in quella bella Italia, felice di aver eliminato chi era a capo dei tanti staterelli e sperato in un domani migliori non era tutto rose e fiori, come si legge nei testi scolastici di storia, perciò il rivoluzionario conclude amaramente:
“Ma temo che se la tempesta, che già rugge lontana, scoppiasse sulle nostre teste, se l’unità per forze interne di qualche altra provincia, od esterne di qualche amico leale (!) corresse pericolo, qua, invece di trovare aiuti e difese, si trovassero ostacoli e impedimenti. Vi hanno occasioni, in cui l’inerzia dei popoli è più perniciosa ai governi, che l’aperta ostilità; ed io ho ragioni anche troppe per dubitare che nell’ora del pericolo la Toscana potesse coll’inerzia e coll’ostilità passiva farci un gran male”.
Abbiamo voluto proporre questo sfogo, perché, in parte, è attualissimo, ma documenta il tradimento operato, da sempre, sulle spalle del popolo che, per colpa di grandi furbastri soffre, sospira e spera. O, forse, ci sbagliamo e quella calma apparente non sarà tale a lungo?
Giuseppe Abbruzzo