Il silenzio della violenza

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Se la percentuale delle violenze domestiche non sembra voler diminuire, c’è un dato ancor più angosciante: il 90% delle vittime non denuncia l’abuso subito.

A differenza di quanto si possa immaginare, il fenomeno delle violenze domestiche avviene trasversalmente in qualsiasi contesto familiare. Non sempre ci sono elementi di disagio evidenti quali dipendenza (da alcol o droghe) o povertà nei casi di abusi. Molte volte il fenomeno non è esclusivo di quelle realtà che possiamo considerare disagiate o periferiche. Troppo spesso la cronaca porta alla luce casi di violenza in famiglie benestanti e in contesti agiati.

Le violenze sono coperte da silenzio, minacce, false testimonianze, accuse, quasi che la colpa fosse della donna.

La maggior parte delle vittime di violenza non parla, non si confida e, soprattutto, non chiede aiuto a nessuno. Gli abusi di genere sono una pandemia, cronica e strutturale in tutte le culture, ed è moltodifficile disinnescare gli stereotipi che ancora vedono i legami familiari fondati sulla naturale sottomissione femminile a precisi obblighi e ruoli di genere.

 Nel 2021 la Commissione d’inchiesta al Senato sul femminicidio e sulla violenza di genere, che per più di un anno ha studiato 1500 fascicoli processuali, ha reso pubblica la sua relazione.

Si legge: «Quando le donne che non soggiacciono a questo meccanismo culturale e gerarchico denunciano o si separano, non sono sempre da tutti percepite come persone offese da proteggere e di cui tutelare il diritto umano a una vita libera e dignitosa ma, al contrario, sono talvolta ritenute “astute calcolatrici” e mosse da una volontà vendicativa. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo nei confronti della donna è definita come “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, difficile, instabile, non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice, ecc.”. La condizione di disagio sociale del violento è spesso valorizzata (alcolismo, tossicodipendenza, ludopatia, perdita del lavoro, malattia, ecc.), e sembra quasi legittimata la reazione a comportamenti della vittima che viene colpevolizzata per avere “provocato, tradito, accusato”. 

Insomma, i pregiudizi rischiano di capovolgere e distorcere i fatti spostando o attenuando, inconsapevolmente, la responsabilità: l’autore esprime solo sentimenti e passioni, la vittima non esercita diritti, ma provoca reazioni inconsulte. 

Ed ecco che le donne non denunciano, per paura di essere ulteriormente attaccate dagli uomini, dalla società.

La violenza non è un raptus del momento ma il risultato di un’escalation e di una dinamica di coppia sbilanciata. E’ un vizio continuo e spaventoso, non è mai un episodio isolato.

Come riportato nell’approfondimento all’argomento sul sito dell’Arma deiCarabinieri: “Chi commette ripetutamente azioni violente fra le mura domestiche di solito ha un unico obiettivo: desidera porre la sua vittima in uno stato di “sudditanza” perché vuole sentirsi potente e perché esercitare azioni di comando e di controllo su un membro della famiglia lo fa sentire appagato e sicuro di sé.

Anche gli uomini sono prigionieri di gabbie mentali che li vogliono forti e potenti. Vanno liberati pure loro e la reazione al senso di inadeguatezza non può più essere la violenza. 

Non desidero solo trattare il tema per dare voce alle donne maltrattate. Vorrei anche raggiungere la radice del problema, capire cosa spinga un uomo a fare del male alla propria partner. Dovremmo interrogarci sul perché la sessualità maschile sia sempre uguale a se stessa, incapace di evolversi, rimanendo spesso primitiva e dannosa.

Ci sono uomini che comprano donne, le stuprano, le uccidono, nel minore dei mali, non le rispettano. I corpi restano muti, gli uomini restano in silenzio davanti alla loro identità andata in pezzi e covano un loro drammatico malessere.

Sarebbe ora di chiedere agli uomini violenti di farsi carico delle proprie paure e debolezze che ne ostacolano qualsiasi cambiamento. Forse è arrivato il tempo di parlare finalmente di una questione maschile, ma per farlo è necessario rompere il silenzio, non solo delle vittime, ma anche dei carnefici.

Si tratta forse di una perdita di valori? La causa sono dei disturbi psicologici che spingono un uomo a imporsi solo con la violenza? Da dove viene tutto questo odio?

Ne ho parlato con un amico R.O. e, alla fine, gli ho rivolto queste domande. Lui si è reso disponibile ad accogliere la mia richiesta. Ecco la sua risposta.

“ Perdita di valori? Soffermiamoci sul termine “valori”. Una perdita di valori ci sarebbe stata solo se entrambi i soggetti fossero partiti con uguale consapevolezza del suo significato. Invece si osserva quasi sempre che l’uomo si propone non in modo paritario, ma con un più o meno velato autoritarismo verso la propria moglie-compagna, per spingersi in una situazione estrema (quale può essere un contesto bellico) di

sentirsi autorizzato a stuprare il corpo femminile per umiliarlo.

L’atto sessuale, che dovrebbe cementare l’unione fra due corpi, si rivela il momento della verità per percepire quanto amore o rispetto ci sia fra le persone che lo compiono. Può rappresentare, anche, l’altra faccia della medaglia della coppia, cioè l’egocentrismo e la prevaricazione dell’uomo a ribadire il privilegio della virilità.

Anche in un rapporto sano, la domanda tipica dell’uomo (“Ti è piaciuto?”) rivela l’egoistico compiacimento di aver dato prova delle proprie valenze sessuali. Il dubbio di lasciare inappagate le attese femminili non terrebbe tranquillo nessun uomo, ne andrebbero di mezzo le sue prerogative (l’orgoglio personale, l’autostima, la propria mascolinità), non ultimo il fardello amaro di risultare un compagno non più

desiderato.

La sensazione di venire rifiutato e, ancora di più, l’onta di vedersi sostituito da un altro scatenano l’unico pensiero, costantemente presente, quasi martellante, di rivalersi sulla moglie-compagna, magari castigandola per la sua autonomia e determinazione. Lo scatenarsi della volontà omicida nell’uomo non è, allora, dovuto a qualche raptus momentaneo, ma soltanto a un’acredine covata da molto tempo.”

Elena Ricci

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