Memorie in libertà
I ricordi d’infanzia sono quelli che, man mano che si procede verso la
maturità, si appalesano in maniera più nitida nella nostra mente.
Quasi per una beffa della vita, l’età della maggiore spensieratezza
coincide con quella nella quale si vorrebbe che le lancette del tempo
volassero e ci conducessero speditamente verso l’età adulta. L’ansia
di divenire grandi è tale che non ci permette di vivere appieno l’età
più bella. Subito l’ansia e la frenesia di crescere si impossessano di
noi e ci spingono in avanti. Entrati, finalmente, nel mondo degli
adulti, un vortice impazzito ci divora e ci immette in un sistema nel
quale non è dato fermarsi. Una serie infinita di obiettivi finisce per
occupare i primi posti della nostra scala di priorità e tutto il
passato viene accantonato e non rielaborato fino a quando la vita
stessa – e, forse, un minimo di saggezza tardiva – ci inducono a
sollevare il piede dall’acceleratore. E’ in quel momento che ciò che
era stato accantonato ci appare in tutto il suo splendore e nella
pienezza del suo valore. E’ come se la coltre di polvere depositata
dal tempo sui file ingialliti della nostra memoria remota si
sollevasse di colpo permettendoci di osservare nitidamente ciò che
eravamo.
Nella stagione presente della nostra vita, ci troviamo, appunto, in
quella fase nella quale si tende a rivalorizzare e rivedere con più
luce la fase iniziale del nostro percorso esistenziale, fatta di
giorni senza scopi o mete precise, nei quali il tempo non era quello
scandito dalle lancette di un orologio. Vivendo in quartiere popolare,
la facilità di stringere amicizie era notevole. Si trattava di
rapporti autentici e disinteressati, come difficilmente capiterà in
seguito. Abbiamo avuto la fortuna di avere un compagno di giochi e di
avventure straordinario, altruista, buono. Si chiamava Silvio. Erano i
primi anni Settanta e, spesso, soprattutto nei pomeriggi primaverili e
estivi , ci allontanavamo da casa per addentrarci nelle campagne
adiacenti il centro. Era bello osservare la ripresa della natura,
giocare, starsene distesi sull’erba, fantasticando su ciò che sarebbe
stata la nostra vita, i sogni su ciò che saremmo diventati, i desideri
che si sarebbero avverati, facendo di noi dei ricchi signori con auto
lussuose e tutto ciò che la fantasia di un bambino potesse immaginare.
“Io vorrei avere tanti soldi da potermi permettere un’officina tutta
mia, una Lancia fiammante o un’Alfa e potermene andare in giro per il
mondo in compagnia di una bionda”. Ipotizzava così la sua vita futura
Silvio. E noi, di rimando: “Io vorrei avere una villa con un giardino,
una Mercedes, tre figli e vivere a Milano”. Il capoluogo lombardo era
l’unica città che a quel tempo avevamo visitato e, non avendo altri
termini di paragone, la scelta si riduceva molto. La nostra scarsa
conoscenza di un luogo in gran parte idealizzato ci impediva di vedere
che i due desideri (la villa col giardino e la megalopoli) fossero
difficilmente conciliabili. Da sottolineare che, a parte il Duomo e
Piazza Castello, la parte di Milano che avevamo visto non
corrispondeva esattamente al meglio. Un grossa fetta di emigranti
calabri – e acresi in particolare – in quegli anni, erano concentrati
nel quartiere “Ponte Lambro”, abbastanza trascurato. Buona parte degli
acresi abitavano in “Via degli Umiliati”. In pochissimi associavano
quel toponimo alla sua vera origine (un ordine religioso), mentre i
più si divertivano ad ironizzare sull’accostamento tra quel nome e una
condizione esistenziale. Ad ogni modo, per noi, Milano simboleggia la
“caupt mundi” e nulla di meglio sarebbe potuto esistere. Infinite
discussioni col nostro amico, che era molto più tentato da Roma, dove
viveva uno zio, che gli aveva descritto tante e tali meraviglie da
fare impallidire il capoluogo lombardo. Spesso la sera ci coglieva
ancora impelagati nelle nostre discussioni e il ritorno a casa era,
non infrequentemente, temuto per le possibili punizioni legate alla
nostra irreperibilità temporanea. L’età più bella è scorsa velocemente
e le nostre strade si sono ben presto separate. Silvio in Svizzera,
noi nel Centro e poi nel Nord Italia. Nelle rare occasioni di incontro
l’affetto era palpabile e trascorrevamo ore a rievocare una stagione
bellissima. I sogni di di Silvio si sarebbero precocemente infranti a
soli 33 anni, stroncato da un arresto cardiaco, che lo ha portato via
come una folata di vento si porta con sé le foglie caduche. Ancora
oggi, dopo quasi un quarto di secolo dalla sua improvvisa dipartita,
ci interroghiamo su come sarebbe stata la sua vita futura, sul senso
stesso dell’esistenza su come le tre parche si divertano a srotolare e
spezzare quel filo senza logica o giustizia alcuna. Oggi che la
canizie ricopre buona parte della nostra testa, rievochiamo spesso
quelle giornate trascorse con un amico tra i più cari e, solo ora, ci
accorgiamo di quanto bella, fugace e traditrice era quella stagione
che vivevano con frenesia.
Massimo Conocchia