“Un vecchio e un bambino”
All’epoca in cui lo conobbi – seconda metà degli anni Settanta circa -, aveva poco meno di ottant’anni, mastro Vincenzo (nome di fantasia). Era nato nel 1899, orgogliosamente diceva di essere un “ragazzo del ‘99”, ossia apparteneva a quella classe di ragazzini che, diciassettenni, vennero chiamati al fronte nella Grande Guerra, in quanto la carneficina in atto richiedeva forze nuove da inviare al fronte. Poco importava se si mandava a morire dei ragazzini, la guerra non ha senso, si sa.
Sopravvissuto miracolosamente alla Prima Guerra mondiale, riportando ferite profonde nel corpo ma soprattutto nell’animo, venne poi richiamato per la Seconda. E’ stata una generazione particolarmente “fortunata” quella di mastro Vincenzo, che aveva attraversato due conflitti mondiali e un ventennio di dittatura. Durante la Seconda Guerra mondiale, sul fronte orientale, in Albania prima e in Grecia dopo, divenne cieco a causa dei gas usati dagli inglesi. Ritornò a casa poco più che quarantenne e non ebbe la possibilità di “conoscere” i suoi figli. Dei due grandi conservava l’immagine che aveva nella mente di loro ragazzini, di quello più piccolo, nato mentre lui era già partito non avrebbe mai avuto la possibilità di stamparsi il volto nella propria mente.
Il destino si fece beffa di lui: lo risparmiò ma, dopo avergli fatto conoscere le peggiori brutture del mondo e dell’uomo, gli toglierà, poi, la possibilità di vedere la rinascita con quanto di buono sarebbe venuto. “Devo comunque ringraziare qualcuno lassù. Rispetto a molti dei mie compagni, anche più giovani, ho riportato a casa la pelle”. I ciechi, poi, hanno la possibilità di affinare tutto un sistema sensoriale alternativo, che gli consente di entrare a contatto col mondo e percepirne i contorni col tatto e in molti altri modi. Era un uomo saggio e, specie nei pomeriggi primaverili o autunnali – quando gli risultava più gradevole starsene al sole, appoggiato con le braccia allo schienale della seggiola posta al contrario di come si usa abitualmente – , dopo avere acquistato il pane al panificio di mio zio, in zona “Ritunna”, restavo a lungo con lui a parlare. Sul lato destro della sua abitazione c’era una vecchia vasca per lavare i panni, messa di rovescio e usata come panca. Mi sentiva arrivare e mi riconosceva dal rumore dei passi. La prima volta mi chiese quanti anni avessi. Era l’epoca nella quale si vorrebbe che gli anni corressero e ritoccai la mia età, dandomene tre in più. Conoscere l’età era fondamentale per lui per ritmare e selezionare i racconti e le atrocità vissute. Sedici anni era per lui un’età nella quale ci si può considerare adulti. Del resto, non era stato chiamato in guerra più o meno a quell’età?
Le cose che uscivano da quella bocca erano molto più interessanti di un capitolo di storia e mi affascinava sentirlo raccontare di vicende di guerra, di battaglie. Sul carso ebbe la ventura di capitare in un battaglione nel quale erano tutti più grandi, per cui lui era utilizzato come mascotte. Oltretutto, con gli austriaci della trincea opposta, capita l’assurdità della guerra, avevano raggiunto un patto di non belligeranza, in base al quale non si sparavano. Al mattino lui si sbracciava per salutare il “nemico” e veniva contraccambiato. Peccato che, a livello gerarchico austriaco, subodorata la cosa, decisero di cambiare battaglione, per cui una mattina, il nostro ebbe l’amara sorpresa di vedersi ricambiare il buongiorno con colpi di fucile, che, per pura fortuna non lo centrarono. Da qual giorno la musica cambiò e si entrò nel vivo della guerra, quella vera. Vedeva i soldati morirgli davanti, uno dopo l’altro, fino al punto che la cosa non faceva più scalpore, l’imperativo era salvare la propria pelle, non c’era tempo per preoccuparsi di chi stava accanto. Era finita l’epoca dei sorrisi e delle pacche. “Ogni notte si andava a dormire con l’incertezza di arrivare alla sera successiva, ed era terribile”. “Maneggiando la penna, mi capitava di scrivere qualche lettera alle famiglie da parte di chi era analfabeta. Quelle lettere dettate e struggenti le ho tutte nella mente e non le potrò mai dimenticare. In qualche caso, mi è poi capitato di scrivere a quelle stesse famiglie per comunicare loro che il loro congiunto era morto”.
Ritornato a casa, per anni non riusciva a dormire più di due o tre ore per notte a causa degli incubi della trincea. “L’uomo è una bestia orribile; è l’unico tra gli animali che uccide i propri simili”. C’era una filosofia di vita nelle sue parole e nei suoi racconti, che li rendevano non noiosi, al contrario.
Poco dopo, venne il Fascismo, le violenze, la mancanza di libertà, i soprusi. Insomma non la vita che ci si sarebbe aspettati dopo il conflitto, non un mondo di pace ma paure e minacce. In tutto questo terribile contesto, ebbe, però, la fortuna di conoscere una ragazza bellissima con la quale mise su famiglia.
Qualche anno dopo, nel 1940, a giugno, l’Italia entrò in guerra a fianco alla Germania e lui venne richiamato. Altri orrori, altre violenze, fino a quando, una mattina, il sole smise di splendere e fu l’oblio per sempre: i gas lo avevano completamente reso privo della vista. Fu congedato e fece ritorno a casa ma nelle vesti di un invalido, non un sostegno ma un peso per la famiglia. Furono anni terribili e il misero sussidio che gli veniva corrisposto non bastava per sfamare sei bocche.
Dopo la guerra le cose economicamente si sistemarono e da quel punto di vista non ci furono problemi.
Ascoltarlo era non solo istruttivo ma, per certi aspetti, accattivante per i suoi giudizi sull’uomo, sul mondo, sulla vita in generale e tutto, agli occhi di un ragazzino, risultava quasi epico, surreale.
Sapientemente mastro Vincenzo, alternava racconti crudi di guerra con esperienza di vita giovanile. Raccontava di un mondo scomparso, di vita, di “amore” vissuto, giovanissimo, al ritorno dalla Grande Guerra, in quelle che erano le “case chiuse”, rammaricandosi di come, nell’intenzione di proteggere chi faceva il mestiere più antico del mondo, di fatto quelle donne venivano affidate nelle mani di un mercato clandestino, gestito da uomini senza scrupoli, e messe sulla strada. Mi attardavo con lui per ore. Un giorno, non vedendomi arrivare, mia madre decise di venire a vedere dove fossi. Mi scorse da lontano e con uno sguardo ammonitore, senza parlare per non farsi notare dal mio interlocutore, mi intimò con dito di seguirla. Ritornando a casa, dopo la ramanzina di rito, mi chiese che cosa ci facessi con quel signore. Le raccontai, ingenuamente, tutto, dei racconti crudi di vita, dei casini e delle puttane. Dopo essersi segnata con la croce mi fece promettere che non mi sarei più fermato con quell’uomo. Promisi incrociando le dita (mi avevano detto che in tal modo la promessa non aveva valore). Continuai a fermarmi ma con molto meno tempo fino a quando, all’alba di un 25 Aprile, mastro Vincenzo si spense. Lessi il manifesto: sotto il nome era stato messo il titolo “Cavaliere di Vittorio Veneto”. Era morto in un giorno quasi beffardo per lui: la liberazione era, di fatto, coincisa con le tenebre e l’oblio. All’epoca ci restarono in mente maggiormente i racconti piccanti e di vita. Oggi, ci ritornano le sue parole sull’insensatezza dell’uomo, sull’assurdità della guerra e le sue certezze circa il fatto che quelle terribili esperienze sarebbero state un monito per il futuro. “Godetevi la libertà, che tanto cara è costata a chi vi ha preceduto, non sprecatela”. Chi sa cosa penserebbe oggi vedendo che quell’esperienza non è servita a molto e che le guerre continuano in ogni parte del mondo. Mastro Vincenzo era stato, con altri, interprete di un tentativo di riconciliazione tra gli uomini: il racconto di come due trincee contrapposte avessero determinato, in barba ai comandanti e alle regole, di non belligerare era, in fondo, un modello di come i popoli possano spesso parlare una lingua diversa rispetto a chi li dirige e, non infrequentemente, essere più saggi, perché non animati da interessi perversi, la cui soddisfazione impone lo scontro.
Quel saggio maestro di vita, ci ha insegnato assai più di tanti libri e tante nozioni.
Massimo Conocchia