Intellettuali e impegno civile: un problema antico e non risolto

Quello del ruolo degli intellettuali nella società in cui vivono e agiscono è questione non nuova e mai veramente risolta. In questa sede, e nell’attuale contesto, ci preme sottolineare la nostra visione e il ruolo che – a nostro giudizio –  dovrebbe ricoprire che fa scrive e chi  fa opinione.

Uno scrittore che, con particolare forza, si pose il problema dell’impegno civile dell’intellettuale e quindi della necessità che egli facesse sentire sopra gli altri la propria voce è stato, nel XIX secolo, Emile Zola, a proposito dell’Affaire Dreyfus (un ufficiale francese, di origine ebraica, ingiustamente condannato), quando pubblicò un severo e autorevole atto di accusa (“J’accuse”, appunto) verso le autorità civili e militari che quell’ingiustizia avevano permesso e perpetrato. Da allora in poi, in maniera più fluida e plastica a seconda dei tempi e degli eventi, il problema del ruolo degli intellettuali nella società è stato ampiamente dibattuto, con Gramsci e la sua visione dell’intellettuale organico, con la distinzione netta tra “intellettuale” e “funzione di intellettuale” (XII Quaderno del carcere). A sottolineare il legame tra intellettuale e substrato economico, tra sovrastruttura e struttura.  Successivamente, il problema è tornato alla ribalta del dibattito nel secondo dopoguerra con la nota polemica tra Vittorini e Togliatti, più avanti con Pasolini e la sua lotta contro i rischi di una cultura piccolo borghese omologante. Quella stessa “cultura” che ha cercato di distruggerne e demolirne la figura prima e dopo la morte. Oltralpe, il problema ha assunto ben altri contesti con Sartre e, successivamente con Maurice Blanchot. Lo stesso Blanchot distingueva tra il ruolo dello scrittore  e quello del poeta: mentre il primo ha una funzione sociale e civile che deve essere intrinseca nel suo agire, il secondo è più libero di muoversi in una dimensione atemporale, nella quale a predominare sono le introspezioni, i moti interiori, non necessariamente legati a una contingenza civile, anche se gli esempi di poeti specchio e testimonianza scomoda dei loro tempi difficili non mancano (si pensi a Ungaretti e alla poesia legata alla terribile esperienza delle guerre mondiali). Ritornando al ruolo degli intellettuali, non vi è dubbio che attualmente si sia molto affievolito. Se ci si chiedesse qualche esempio di intellettuale “impegnato” e coscienza critica di questo nostro presente così difficile, faremmo fatica a trovarne uno alle nostre latitudini. Bisognerebbe tornare indietro di circa un trentennio per trovare qualche esempio: penso a Indro Montanelli e al suo rifiuto di asservire la propria penna   a un editore improvvisamente divenuto leader politico. Montanelli il problema lo risolse da par suo, andandosene sbattendo la porta e rivendicando la propria libertà. Altri fecero scelte diverse e si genuflessero, svendendo penna e ideali per la pagnotta. Si potrebbero trovare altrettanti esempi negativi nel fronte opposto. Da Montanelli ai giorni nostri, complice un graduale venir meno di idee e ideali, il ruolo di scrittori e grandi penne è venuto progressivamente meno, fino ad arrivare alla presente stagione, caratterizzata dal pensiero unico, nel quale nulla si critica e tutto va bene, proprio nel momento in cui nulla va come dovrebbe. Oggigiorno si assiste a un rifiorire di nostalgici di epoche buie del Novecento, dagli anni del craxismo, assurto in tempi recenti al ruolo di martire, fino a giungere a coloro che invocano e fremono per un nuovo “ventennio”. A tal proposito, ci riecheggiano ancora le parole di un ex partigiano che, durante un alterco con un esponente di “Alleanza Nazionale”, ebbe a sostenere: “E’ comodo e facile fare il fascista in un regime democratico, il difficile è stato fare il democratico e combattere per la libertà durante la feroce e terribile dittatura fascista”. L’interlocutore ammutolì.

Massimo Conocchia

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