Ci salvò Vincenzo Padula
Le scene di guerra che si vedono in questi giorni mi fanno tornare alla mente ricordi, che avevo cercato di dimenticare col passare del tempo.
A Verbicaro, dove mio padre era stato inviato, richiamato in servizio, come scrissi altra volta si temeva di far la fine dei topi. A sera il paese restava deserto. Mio padre usciva per l’ordine pubblico. Dal mare si vedevano i bombardamenti sulla terra. Dicevano: – Se allungano il tiro… non ci resterà pietra su pietra -. Ai bambini era uso far recitare le preghiere della sera. Mia madre ne ripeteva, come preghiera: – Se vi chiamo prendete i vestiti, che sono sulla sedia accanto al letto, e scappate come vi trovate… Io prendo vostra sorella e scappiamo -. In quel paese eravamo l’unica famiglia a restare in casa… Ma, dove saremmo scappati?… Eppure mia madre recitava sempre quella stessa “preghiera”.
I razzi lanciati per avvertire le popolazioni a terra del bombardamento imminente e quei lampi e quei rumori divennero usuali per giorni e giorni.
Dopo l‘8 settembre 1943 mio padre chiese d’essere ricollocato in pensione. Negli ultimi giorni di ottobre, su un camion carico della poca e essenziale roba, che avevamo, ci avviammo verso Acri.
A Paola facemmo sosta. Era sera inoltrata. Tutto era un cumulo di macerie. Era uno spettacolo spettrale. Ci sedemmo al tavolo di una taverna. C’erano gli Alleati che schiamazzavano, cantavano, ridevano. Noi, in silenzio, mangiavamo quello “che offriva il convento”. Un soldato vedendo me e mio fratello silenziosi e fermi sulle sedie, forse, pur se ubriaco, ne ebbe pietà e venne a offrirci qualcosa. Eravamo stati abituati a non accettare nulla da estranei in quei tempi tragici. Rifiutammo. Quello insisteva. A un certo momento venne il proprietario del locale e disse ai miei genitori: – Dite ai ragazzi di prenderli, perché questi sono ubriachi come porci e non si sa come potrebbero reagire -. Prendemmo il dono. Ringraziammo.
Erano i chiarms, caramelle a noi, ormai, sconosciute. Decisi che le avrei portate ai nonni. Mi erano mancati tantissimo. Non ne ricordavo più le sembianze, ma li avevo pensato sempre.
Ripartimmo. Verso sera arrivammo a Cosenza. Eravamo di fronte alla Caserma dei Fratelli Bandiera, nell’avvallamento, dove la strada corre più in alto. Il camionista scaricò la roba proprio davanti a una rivendita di sale e tabacchi. Disse che non poteva proseguire, perché la strada per Acri era minata.
Mio padre non riuscì a trovare un posto in albergo. Erano strapieni. Cosenza era stata bombardata. Ci apprestammo a dormire sotto le stelle. Si sentivano continuamente rumori di mura che crollavano. Avevo bisogno di urinare. Mio padre mi portò poco lontano. C’erano i ruderi della chiesa di S. Nicola. Le bombe l’avevano distrutta. Rimasi colpito da un enorme crocifisso. Sembrava mi guardasse e mi commiserasse, quasi piangendo, per quanto mi succedeva. Ci allontanammo, ma sentivo quegli occhi pietosi su di me.
Dormimmo là. Al mattino, sul presto, mia madre disse: – State attenti, che qua ci rubano tutto -. Mio padre era andato in giro per cercare un camion.
Sulla strada soprastante, un uomo con barba e cappello calcato sulla testa prese ad andare su e giù. Mia madre ripeté: – State attenti …-. Ad un tratto l’uomo si fermò. Chiese a mia madre: – Ma… voi non siete la figlia del prof. Capalbo? -. Mia madre rispose: – Sì… E voi chi siete? – – Sono Vincenzo Padula… Cosa fate qui? -. Mia madre gli disse della nostra disavventura e che mio padre era andato in cerca di un camion. Disse Padula: – Ve lo trovo io un camion – e andò via. Tornò mio padre. Non aveva trovato il camion.
Il tabaccaio, intanto, arrivò e disse: – Cosa fate qui? – I miei gli dissero in che guaio ci trovavamo. Il buon uomo disse: – Io devo fare la distribuzione di sale e tabacchi… Se apro, qua non vi lasceranno nemmeno gli occhi per piangere -. Rinviò l’apertura e la distribuzione.
Arrivò Padula col camion. L’autista appena vide mio padre gli si rivolse con entusiasmo, aveva lavorato in Sila quando mio padre era là in servizio nel Corpo Forestale. Mio padre gli raccontò in che guaio ci trovavamo e lui: – Non vi preoccupate. Vi porterò io. La strada è minata, ma gireremo per S. Sofia -. Padula, che faceva il facchino alla stazione, ci aiutò a caricare. Partimmo. Il viaggio mi sembrava interminabile. Avevo fame. Mangiai una caramella. Dovevo portarle ai nonni, ma la fame mi tormentava e una alla volta le mangiai tutte. Il 30 ottobre arrivammo ad Acri. Era la festa del Beato Angelo.
Quando, dopo anni, andai alla scuola media, al Casalicchio, vidi un signore trasandato, chiesi chi fosse. Mi fu risposto: – È Xoda… Vincenzo Padula… Lascialo stare, ch’è sempre ubriaco -. Volevo ringraziarlo per averci salvato, da quei terribili frangenti. Era destino che quel nome avrebbe dovuto giocare un ruolo nella mia vita. Un giorno non vidi più uscire, come al solito, Padula dal suo monolocale. C’erano lì davanti i Carabinieri, che avevano la caserma a pochi passi. Scassarono la porta. Vincenzo Padula, il nostro salvatore, era morto.
Quando andai a studiare a Cosenza, andai nella ricostruita chiesa di S. Nicola. Volevo vedere il Crocefisso. Non era grande come l’avevo visto quella notte.
Un giorno feci coraggio e andai dal tabaccaio. Entrai. Restai interdetto, come rivedendo e risentendo quel suo pietoso discorso. Mi chiese: – Cosa vuoi? -. Si apprestava a prendere un pacchetto di sigarette. Dissi, con voce rotta: – Nulla… sono uno di quei bambini… Sono venuto a ringraziarvi -. Gli raccontai di quel giorno. Si ricordò, mi abbracciò.
Ora sento di tragedie, dolori e tutto quanto comporta una guerra, penso a quei giorni e alle tante disavventure alle quali ho assistito e vissuto… Capisco quanto sia duro vivere fra paure e quant’altro comporta la guerra.
Spero che tutto finisca presto. La Pace è la cosa più bella!
Giuseppe Abbruzzo
Capisco, caro Professore, che in questo periodo siamo tutti particolarmente sensibili, ma il suo articolo di ieri mi ha commosso profondamente. Le angosce di un bambino compunto e di una famiglia dignitosa, compita e forte nel sopportare e nel resistere mi hanno toccato il cuore. Lo stile, poi, sembra voler raccontare sottovoce quelle pene, come per metterle a tacere ancora una volta. Grazie della condivisione!